Se Domenico Modugno cantava “Il vecchietto dove lo metto”, il problema di Matteo Renzi è dove mettere la ben più giovane Maria Elena Boschi. Il risiko delle candidature nel Partito democratico parte da lì, ed è un gioco ad alto rischio. Di saltare un giro non se ne parla: la giovane sottosegretaria aretina è l’incarnazione stessa del renzismo, la sua rinuncia a candidarsi sarebbe uno smacco troppo grande.
Ma il caso Boschi va ad aggiungersi alle regole interne, a quell’articolo 21 dello statuto che limita a tre i mandati che un parlamentare può svolgere. Sarebbero addirittura 76 i deputati e i senatori di lungo corso che dovrebbero uscire di scena, a cominciare dallo stesso presidente del Consiglio Gentiloni, per proseguire con big del calibro di Franceschini, Orlando, Pinotti, Finocchiaro, Rosato, Zanda e Cuperlo.
In teoria questo stato di cose dovrebbe rafforzare il segretario dem, che potrebbe sfruttare il potere di dire l’ultima parola sulle deroghe per tenere a bada i suoi oppositori interni, i tanti che mugugnano di fronte ai sondaggi che descrivono un’inesorabile china discendente per il Pd. In pratica, però, Renzi è chiamato a uno slalom delicatissimo, anche perché i posti a disposizione scarseggiano: oggi i parlamentari sono 381, ben che vada saranno oltre cento in meno.
A questa fibrillazione si aggiunga la corsa verso il posto di capolista nei collegi proporzionali, gli unici considerati sicuri, perché con la formazione di Liberi e Uguali diventano poche le realtà in cui con il maggioritario si parte con buone probabilità di farcela. Ufficialmente la strategia è far correre i candidati migliori, fornendo ai big schierati nei collegi uninominali un “paracadute” nel proporzionale. Ma a complicare le cose qualche collegio uninominale buono dovrà andare ai capi delle listerelle alleate, “Insieme” di verdi e socialisti, i centristi di Casini e Lorenzin, i radicali di Bonino e Della Vedova.
Non è che in Forza Italia le cose siano poi troppo diverse: oggi i parlamentari azzurri sono cento, nel prossimo parlamento potrebbero essere molti di più, ma Berlusconi ha fatto sapere che ricandiderà solo la metà degli uscenti, scatenando il panico fra le sue attuali truppe. E anche qui c’è il problema di dividere i seggi nell’uninominale con gli alleati, i leghisti che pretendono almeno la metà dei posti buoni, la destra della Meloni, la quarta gamba centrista dei cespugli, ancora tutta da costruire.
Sarà una fase di trattative convulse all’interno delle due coalizioni, mentre i 5 Stelle da questo punto di vista hanno molti meno problemi. E le incognite maggiori sono nel centrodestra, dove Salvini si fida così poco di Berlusconi da sollecitare in tono ultimativo la sottoscrizione di un programma scritto. Anche la Meloni non disdegnerebbe un patto chiaro agli occhi degli elettori, un patto soprattutto anti-inciuci.
Difficile immaginare che l’intesa a destra possa davvero saltare, perché consegnerebbe il governo del paese ai grillini. I due principali contraenti, però, continueranno a guardarsi in cagnesco sino alle elezioni per un pugno di voti. Lo ripete come un mantra Salvini: chi avrà un voto in più indicherà il premier. Ogni mossa, quindi, sarà ponderata con l’occhio rivolto agli scenari possibili dopo il voto. Va considerato, però, che tutti i sondaggi continuano a vaticinare che nessuno avrà da solo la maggioranza assoluta. E, di conseguenza, la partita vera si giocherà a partire dal 5 marzo, arbitro il presidente Mattarella.
E qui bisogna registrare qualche novità, dovuta all’apertura di Liberi e Uguali verso i 5 Stelle. Accanto a due scenari già noti che — ad oggi — sembrano non avere i numeri (Pd + Forza Italia da una parte e M5s + Lega dall’altra), cambia le carte in tavola la disponibilità di Bersani a tornare al tavolo di quello streaming che ne decretò l’inizio del declino nel 2013.
In linea del tutto teorica, e dati i numeri degli attuali sondaggi un governo a 5 Stelle sembra poter avere i numeri per nascere con il sostegno (interno o esterno) di Lega, Fratelli d’Italia e Liberi e Uguali. Certo, sarebbe una coalizione spericolata e difficilissima da tenere insieme, ma dopo le elezioni politiche potrebbe essere l’unico scenario praticabile.
Legittimo ogni dubbio, sulla durata di questo coacervo di forze a oggi distanti fra di loro, così come sulle convergenze programmatiche possibili. E anche sulla composizione della compagine di governo non sarebbe facile trovare intese. Ma se neppure questo scenario si dovesse concretizzare, a Sergio Mattarella non rimarrebbe altro che arrendersi all’evidenza di dover sciogliere di nuovo le Camere e richiamare gli italiani al voto in tempi ristretti.