Non è difficile pronosticare che la disputa fondamentale che si porrà dopo le elezioni, qualunque sia il risultato, sarà quella sulla titolarità, non dico dell’incarico, ma quanto meno del tentativo di formare un governo. Il M5s non ha tutti i torti a sostenere che dovrebbe toccare al partito che avrà ottenuto il risultato migliore. E tuttavia ha ancor più ragione quando sostiene, il movimento grillino, che la nuova legge elettorale è stata pensata proprio allo scopo di danneggiarli. Ed allora è lampante il movente di tutti i sottoscrittori del Rosatellum, viceversa, di cambiare le carte in tavola in modo da dar vita a uno spirito di coalizione che renderà le coalizioni stesse, e in particolare quella che avrà ottenuto il maggior numero dei voti, interlocutrici del Quirinale che dovrà affidare l’incarico.
Chi ha ragione, allora? Tutti e nessuno. I 5 Stelle hanno qualche ragione nel ritenere che nulla sia cambiato: in effetti con la nuova legge non c’è una vera coalizione o un leader della stessa da dover indicare, c’è solo un’alleanza che si realizza per i collegi uninominali, senza nessun vincolo successivo, e senza nessun incentivo vero, ulteriore, per i partiti a mettersi assieme, neppure nella soglia di sbarramento che resta la stessa, sia che ci si presenti da soli sia che si presenti in coalizione.
Si può ampiamente prevedere che il presidente della Repubblica su questo dilemma verrà tirato per la giacca dai contendenti un minuto dopo che il risultato sarà chiaro. Tutti vedono che è ben difficile che il M5s fieramente schierato da solo — anche alla luce dell’ultimo autorevole sondaggio pubblicato dal Corriere della Sera — potrà essere scalzato come primo partito, così come è ben difficile che i 5 Stelle possano superare da soli le due coalizioni, soprattutto il centrodestra, che in questo momento appare in netto vantaggio, e potrebbe ora anche avvantaggiarsi ulteriormente del voto utile, o — più brutalmente — dell’atavica corsa in aiuto del vincitore, autentico sport italiano e non solo.
Tuttavia a bene vedere la disputa non ha alcun valore costituzionale. In realtà quand’anche si fosse trattato di coalizioni sancite sulla scheda con tanto di indicazione del leader e condivisione del programma, a costituzione invariata come siamo attualmente, legittimato a ricevere l’incarico resta solo chi, agli occhi del presidente della Repubblica — alla luce dei seggi attribuiti e delle successive consultazioni — si mostrerà in grado di poter ottenere o di poter almeno tentare di raggiungere la maggioranza in entrambe le Camere. Se una coalizione (in questo momento sembra avvantaggiato il centrodestra) arriverà molto vicina all’autosufficienza un tentativo da parte del leader unitario che in quel momento si andasse a configurare non le potrebbe essere negato.
Ma anche questo non è scontato. Restiamo all’ipotesi attualmente più accreditata, la vittoria “ai punti” del centrodestra, sia pur senza autosufficienza. A chi dovrebbe andare l’incarico, al leader indicato dal partito più votato al suo interno, o a quello che è in grado di creare un asse più forte? Cerco di essere più chiaro. È evidente che al centro il fenomeno che si va creando nel centrodestra sarà una truppa di complemento del partito di Berlusconi, e i voti conseguiti da questa nuova aggregazione certamente andranno sommati a quelli di Forza Italia, nella competizione interna, così come quelli di Fratelli d’Italia certamente si possono definire in asse con Salvini.
In ogni caso la vittoria chiara di una coalizione resta uno scenario possibile. Ma non molto probabile, per tante ragioni. La grande frammentazione attuale porta a individuare a dire il vero 4 poli, se non 5, in luogo dei 3 di cui si parla abitualmente, e in una situazione del genere è difficile immaginare un vincitore che si aggiudichi la partita da solo. È probabile allora che in queste settimane il Quirinale si metta al lavoro per tenersi aperto un “piano b”, la disponibilità di una personalità in grado di aggregare intorno a sé un consenso che vada oltre le pseudo-coalizioni messe in piedi con il Rosatellum (ma fragilissime dal punto di vista sia istituzionale che politico).
In questo senso una novità inattesa di queste ore è la disponibilità dichiarata da Massimo D’Alema a uno sforzo di fantasia nel mettere a disposizione le truppe della nuova sinistra a un’alleanza che includa anche Berlusconi. Non so però quanti saranno d’accordo con lui, nel nuovo partito. Cosicché allo stato, comunque si vogliano fare i conti, il risultato più probabile dopo il voto resta lo stallo, l’incartamento istituzionale, la legislatura breve, tanto è vero che fioccano i casi di rinuncia dal presentarsi. Rinuncia Alfano, rinuncia Di Battista, lo stesso fa Pisapia. Ma un ritorno al voto dopo pochi mesi è l’ultima delle cose di cui avrebbe bisogno questo Paese, alle prese con un’insperata ma ancora timida ripresa dopo aver vissuto il decennio più buio della sua storia, dal dopoguerra in poi.