Il periodo prenatalizio, il tempo liturgico del’Avvento, non porta fortuna a Matteo Renzi, il segretario del Partito democratico. Lunedì 4 dicembre, alcuni suoi avversari (il 60 per cento degli italiani) festeggeranno l’anniversario della catastrofica sconfitta al referendum istituzionale del 2016, quello che doveva cambiare le sorti dell’Italia, con il Senato dei sindaci, il rafforzamento dell’esecutivo, ma soprattutto la gran banalità dell’antipolitica militante: alla sera si sa chi ha vinto e chi ha perso. La politica ridotta ai conteggi, mentre ai tempi della vituperata “prima repubblica” si stava attenti anche a quanto pensava e pesava la piccola percentuale del Pri di Ugo La Malfa.



La “rivoluzione” sarebbe stata in teoria la nascita della “terza repubblica”, secondo l’uomo di Rignano, anche se non si è ancora ben capito quando è arrivata e passata la “seconda”.

Con il bisogno che si sente, sin dal 1992, di una vera riforma costituzionale, con tutta probabilità, se il giovane segretario del Pd, e in quel momento anche inquilino di Palazzo Chigi, non avesse anteposto se stesso, personalizzando oltre ogni limite il referendum, il risultato sarebbe stato diverso, forse addirittura ribaltato.



In quel momento, si badi bene e occorre ricordarlo, si è chiusa veramente questa “maledetta” diciassettesima legislatura e Renzi avrebbe dovuto prendersi un lungo momento di pausa e di riflessione, pensando che forse aveva forzato e schematizzato oltre ogni limite consentito anche la necessaria rottamazione della sinistra, non tanto nei singoli personaggi, quanto nei programmi e nell’impostazione ideale. Invece ha proseguito in una sorta di agonia politica, con un governo che forse ha fatto tante belle “cosine”, ma non ha certo cancellato le percezioni pessimistiche degli italiani.



A nostro modesto avviso, il  grande errore di Renzi è stato quello di non aver preso atto di un fallimento e di non aver adeguatamente pensato a un rinnovamento moderno reale, credibile, della sinistra italiana. Ha invece insistito cocciutamente, in modo provinciale,  a recitare il ruolo del protagonista in un partito che è, fin dalla sua nascita, un miscuglio di culture contraddittorie, promuovendo Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi e commissariando di fatto, con un altro plebiscito (meno frequentato del precedente) di primarie, il suo partito.

E’ a questo punto che è scattata l’operazione scissionistica di Pier Luigi Bersani e di tutti gli altri protagonisti dell’ormai vecchio postcomunismo, che ha un solo obiettivo: liquidare la segreteria di Matteo Renzi. 

Tutti i discorsi sulla congenita voglia di dividersi della sinistra lasciamoli al regista dell’ovvio, Nanni Moretti, e ai suoi seguaci. Piuttosto pensiamo, da un lato, alla “resistenza” di un gruppo dirigente postcomunista che ha responsabilità enormi sul ritardo e poi sugli improvvisi camuffamenti della sinistra italiana (Bersani, D’Alema) e, dall’altro lato, nello stesso tempo, all’avventurismo spensierato, aggressivo, falsamente nuovista dei Renzi, dei Franceschini e di altri personaggi che arrivano dalla cultura del dossettismo e di un brav’uomo come La Pira, i quali comunque nulla hanno a che fare con una sinistra moderna e realmente riformista. 

Ecco perché oggi, sabato 2 dicembre, e domani, domenica 3 dicembre, si assisterà a degli inediti storici nella vicenda secolare della sinistra italiana. Oggi la Cgil promuove cinque manifestazioni per ottenere pensioni più giuste e per la dignità del lavoro contro un governo che è emanazione della sinistra. Le manifestazioni si svolgeranno a Cagliari, Palermo, Roma, Torino e soprattutto a Bari, dove c’è un protagonista antirenziano all’interno del Pd, Michele Emiliano, che contesta apertamente le scelte del governo e del suo segretario. 

Siamo a un livello di scollamento e di rottura incredibile, che magari qualcuno vuol fare passare per “dialettico”, come il silenzio di Dario Franceschini e altri dirigenti Pd al tirassegno su Renzi. Ma è soprattutto la mobilitazione della Cgil — il sindacato di sinistra per antonomasia, quello che, pur con un leader come Di Vittorio, dovette piegarsi alle scelte filorusse di Togliatti sull’invasione e la strage in Ungheria nel 1956 — che lascia esterrefatti.

Le ultime grandi mobilitazioni della Cgil risalgono alla scelta del referendum sul punto di scala mobile (dove pure la Cgil era divisa) contro il governo Craxi nei primi anni Ottanta e alla mobilitazione per l’articolo 18 di Sergio Cofferati contro il governo di Silvio Berlusconi. Adesso, nella resa dei conti, la sinistra sindacale contesta la sinistra politica ufficiale, il partito di riferimento che resta per tanti il Pd, quello dei Veltroni e dei Fassino, oltre che di Matteo Renzi.

Poi si arriva a domenica 3 dicembre, dove l’operazione “liquidare Renzi” si svolge all'”Atlantico” dell’Eur. Lì si riuniscono 1500 delegati di una cosiddetta sinistra “rinascente”, che maschererà probabilmente i suoi veri riferimenti ideali, addirittura, secondo quello che si è saputo, con un nome di partito e un simbolo che non contengono neppure la parola sinistra e chissà in quale modo la evocano. Lì ci saranno i grandi avversari del renzismo, a cominciare dai 37 deputati e dai 14 senatori usciti dal Pd nel febbraio di quest’anno. E lì, in questa occasione, dovrebbe arrivare Pietro Grasso, il presidente del Senato a raccogliere una incoronazione e promozione a leader. Grasso è la figura di riferimento della nuova formazione politica. Non si conosce bene ancora il destino di Laura Boldrini, la presidente della Camera, ma è indubbiamente Grasso il nome di peso, il personaggio che offre consistenza a un elettorato vasto, un po’ di più che i “pesi leggeri” come gli spensierati Speranza e Civati. 

Grasso rappresenta, come ex magistrato che ha rischiato la vita contro la mafia, anche un ancoraggio istituzionale di prim’ordine e si pone quindi all’elettorato come un esponente politico di serietà riconosciuta, più trasversale che prettamente di sinistra e collegato, oltre a tutto, alla disillusione generale che è emersa come in una sorta di escalation, in tutti questi anni, sia con Renzi, sia con il “redivivo” Berlusconi, sia con i carneadi della Rete grillina, i pentastellati dal congiuntivo problematico. Insomma, una formazione politica di “contenuti seri”, secondo il linguaggio dalemiano, rispetto allo spettacolo che gli altri offrono.

Ma attenzione a credere in un nuovo soggetto politico che viene fondato, che si crea domenica e che viene spalleggiato dalla mobilitazione della Cgil. L’impressione è che questa grande adunata dell’Eur sia un fatto quasi emergenziale e una manovra per liquidare l’attuale impasse della sinistra. 

Non sarà un processo breve, ma destinato a durare almeno un anno, con nuove elezioni e un governo anche lui di emergenza. Il problema della sinistra che si raduna all’Eur è l’ultimo colpo alla credibilità di Renzi, è una resa dei conti e anche un poco di gioco al massacro perché il Pd si fermi sotto il 25 per cento, magari, tra il 22 e il 23 per cento alle prossime elezioni politiche. Questo basterebbe già alla squadra di Grasso, Bersani e D’Alema. Se poi questa nuova formazione si avvicinerà al 10 per cento, sembra quasi scontato che arriverà il colpo mortale politico al segretario del Pd. Ci sarebbe la rivolta interna, lo scontento nel partito si salderebbe in qualche modo al “rancore generale” di cui parla il rapporto del Censis e alla disillusione di una società che la crisi finanziaria ed economica ha messo a soqquadro, anche dopo “l’infarto” ( termine usato da Paolo Mieli) del 1992.

Non si può dire che si un bello spettacolo e neppure che ci attendano mesi di relativa tranquillità. Ma il caos italiano di questi ultimi 25 anni, inevitabilmente, non ci poteva riservare un passaggio abbastanza pirotecnico.