Nella biografia di Urbano Cairo molti si divertono a cogliere le simmetrie con la vita di Silvio Berlusconi. Non è un gigante nella statura. È un asso della pubblicità. Cominciò a lavorare proprio come assistente personale del numero uno della Fininvest. Opera nel mondo dell’editoria. Padroneggia giornali e televisioni. Possiede una squadra di calcio, anche se il Torino non vanta il palmares del Milan e quest’ultimo ormai è uscito dall’orbita del vecchio Silvio. Si fregia dell’onorificenza di cavaliere del lavoro. È stato gravato da qualche disavventura giudiziaria. Ha numerosi figli (quattro, cinque il Cav) da più di una moglie (tre contro due). La distanza maggiore tra Berlusconi e Cairo si registra all’ufficio anagrafe: 81 anni il primo, 60 l’altro. Un ventennio di differenza.
Fosse ancora vivo il grande biografo greco Plutarco, avrebbe materiale in abbondanza per un’appendice alle sue “Vite parallele”. Ma l’ultimo capitolo di questa storia è ancora tutto da scrivere. Perché Urbanetto, come lo chiamano i maligni, cova in segreto di calcare le orme del maestro nell’avventura suprema, la sfida impossibile, il cimento dei cimenti: la discesa in campo politico. È un po’ che se ne mormora nei corridoi dei palazzi del potere. Forse lo stesso Berlusconi cova nell’intimo l’ambizione di lanciare nell’agone il suo piccolo clone. Perché per uno che ha avuto tutto, la soddisfazione maggiore è quella di perpetuarsi, o almeno illudersi che ciò possa avvenire. E l’ambizione più alta dell’allievo è quella di superare il maestro.
I segnali che arrivano dalle mosse del tycoon piemontese lasciano intravedere un certo interesse per la politica. Ma una politica lontana dai principali schieramenti che si confrontano oggi. Il Corriere della Sera comprato coraggiosamente da Cairo non ne perdona una a Matteo Renzi, naturalmente con il garbo e il tratto felpato della borghesia milanese. Nonostante vi scrivano alcuni dei giornalisti più vicini al cerchio magico fiorentino, il Corriere cairota tiene le distanze dal Pd renziano anche se occhieggia ogni tanto alla grigia sobrietà di Paolo Gentiloni. La sua tv, La7, cerca il suo spazio lontana dai colossi. La Rai è filogovernativa, cioè in mano a Renzi, mentre Mediaset appartiene a Berlusconi. E così programmi e telegiornali del polo di Cairo guardano con attenzione ai 5 Stelle e alle forze antisistema, un mercato informativo lasciato in gran parte scoperto. Enrico Mentana lancia i servizi con lievi accenni di critica a quel “gran porco” del magistrato che pretendeva bella presenza dalle sue assistenti; Lilli Gruber ospita a “Otto e mezzo” Travaglio, Padellaro e le altre prime firme del Fatto Quotidiano un giorno sì e l’altro pure; i reduci della Rai più battagliera come Giletti, Formigli e Floris, abilmente recuperati e riciclati da Cairo, si dilettano a cavalcare il populismo avanzante. Una situazione tripolare come l’attuale è il massimo per le ambizioni di Cairo.
Urbanetto non si presenterà come l’uomo della provvidenza contro lo spettro della sinistra, come fece il Cav un ventennio fa; ma nel vuoto generale ha un profilo imprenditoriale di successo e mezzi propagandistici da fare valere. Oggi è presto per fare il grande passo. C’è una nuova legge elettorale di cui verificare il funzionamento, un M5s da mettere alla prova, un partito alla sinistra del Pd che potrebbe modificare ancora gli assetti odierni, una Lega che sogna di rovinare la festa a Berlusconi. La situazione è confusa e potrebbe complicarsi ulteriormente. Meglio aspettare un momento più opportuno, forse soltanto le successive elezioni che potrebbero non essere così lontane, per trarre dal cappello a cilindro il ciuffo di Cairo, l’imprenditore rampante che non è né Matteo né Silvio. Perché lui è un Silvio 4.0.