La Commissione Ue ha presentato una sostanziosa riforma dell’Unione economica e monetaria, che dovrebbe andare dalla trasformazione del fondo cosiddetto “salva-Stati” in un fondo monetario Ue all’istituzione di un budget della zona euro destinato a sovvenire il fondo salva-banche, gli interventi in caso di choc economici, nonché per dare ausilio riformatore ai Paesi che vogliano aderire all’euro: pare sia prevista anche la “creazione del superministro del Tesoro” e l’integrazione del Fiscal Compact nella normativa Ue.



Occorre ovviamente attendere di poter leggere la proposta, sempre che vogliano renderla almeno disponibile al comune cittadino, che pare restare sullo sfondo, quale semplice componente di quelle collettività popolari alla cui enfatica evocazione nei preamboli dei Trattati corrisponde invece (almeno dal punto di vista del nostro Paese) la drammatica riduzione ad una condizione effettiva di sudditanza.



Frattanto, però, è possibile almeno sollevare qualche interrogativo, suscitato dalla semplice lettura dei lanci di agenzia.

“I Governi interessati hanno temuto, fin da principio, che una larga pubblicità intorno ai Trattati odierni, potesse dare luogo a un largo movimento di opinione simile a quello che ha contribuito a travolgere nel passato altri accordi diplomatici, e che, anche questa volta, avrebbe messo ampiamente in luce, per lo meno, la gravità economica e politica di talune formulazioni degli strumenti che siamo chiamati a ratificare”: ebbene, benché possa sembrar tale (e ci sarebbe da augurarsi che lo fosse), non è una dichiarazione resa da un attuale esponente politico a commento di quanto sta accadendo. Si tratta di quella posta all’esordio della relazione di minoranza presentata dall’on. Berti nel corso dei lavori parlamentari di approvazione della legge di ratifica del Trattato di Roma, nell’ormai lontano 1957.



Ma la storia sembra ripetersi mestamente eguale, salvo l’aggravarsi — è non è cosa da poco — dei danni che ne possono ulteriormente conseguire. Allora (al momento cioè della essenziale scelta di adesione alla Cee) ed ancora oggi il primo quesito riguarda proprio il fondamentale profilo della trasparenza del processo decisionale.

È possibile che di iniziative di così rilevante portata non si abbia traccia nel dibattito pubblico nazionale?

Ma subito incalza il secondo quesito, con qualche riflessione a margine. Ci si dice che la Commissione “chiede a Parlamento e Consiglio di approvare la proposta entro il 2019”.

Se ne deve arguire che il cosiddetto Esecutivo europeo — al quale il Trattato di Lisbona (seguendo però una traccia che dal Portogallo riconduce nuovamente a Roma) ha attribuito una funzione dominante (finemente analizzato nel prezioso saggio di Giuseppe Guarino intitolato Ratificare Lisbona?) — ha assunto un ruolo “costituente” per dare corso ad una modifica strutturale dell’Unione, che dovrebbe compiersi tutta all’interno di tale ordinamento.

Non interessa qui soffermarsi sull’esistenza di un fondamento normativo che, collocato nella selva delle disposizioni del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, elevi a tale rango i Commissari europei, sia pure col concorso degli altri due organi: quand’anche vi fosse, ci dovremmo chiedere chi e come possa averglielo validamente attribuito (sempre nell’ottica del nostro diritto costituzionale), dal momento che fino ad oggi l’Italia è andata avanti nel “cammino comunitario” a suon di ratifiche con leggi ordinarie, che non possono in alcun modo derogare (tra gli altri) al principio di sovranità popolare e alla sua connessa, indefettibile articolazione organizzativa, dalla quale discende altresì la “signoria” sui Trattati. 

Si tratta di uno snodo davvero delicatissimo, col quale l’Italia deve ancora fare i conti dal 1957.

E la proposta della Commissione ripropone la questione con massima urgenza, visto il “doppio salto” che essa promette di fare (meglio: di farci fare): decisioni dalle quali “può dipendere, in larga misura, l’avvenire del nostro paese per un lungo periodo di anni” (cito nuovamente l’on. Berti) parrebbero sottratte non soltanto (per l’ennesima volta) al popolo italiano, ma, questa volta, anche allo Stato quale persona giuridica di diritto internazionale. Ci dovremo accontentare delle “figurazioni” europee del nostro Governo e della nostra burocrazia?

Senza volerla fare troppo lunga — ma ripromettendoci di tornare sul tema molto presto — il lettore ci concederà di proporgli rapidamente un altro paio di interrogativi: coma va tradotto l’arcano riferimento al “sostegno alle riforme attraverso l’assistenza tecnica esistente”, additato come una delle funzioni del bilancio della zona euro? Quale potrà o dovrà essere lo scopo di tali riforme, ce lo suggeriscono le più recenti vicende di casa nostra (ad esempio, la cosiddetta semplificazione delle istanze politiche nazionali, alleggerite del carico di una troppo fedele rappresentanza politica); l’assistenza tecnica si prospetta come sinistra conferma della degenerazione del nostro Stato ad entità amministrata dall’esterno, con un concorso che, se non ci rende totalmente incapaci, ci avvicina però alla situazione di colui il quale, parzialmente inabile, ha bisogno di chi integri la sua volontà.

Da dietro le quinte avanza e si fa sempre più esplicitamente concreto il rischio della sostituzione (anche formale) dell’organocrazia alla democrazia, in un ordine giuridico che (forse) si preferisce appaia acefalo.