“Se la politica viene meno al suo compito, ci restano o il neo-autoritarismo o la guerra civile”. Vale per l’Europa ma anche per l’Italia, secondo Fausto Bertinotti. Sindacalista, poi fondatore e leader di Rifondazione comunista, Bertinotti guarda ormai da lontano le preoccupazioni che agitano i suoi vecchi compagni di strada e di governo, da D’Alema a Prodi, semplicemente perché è convinto che la sinistra istituzionale abbia finito la sua corsa. “La mia sola preoccupazione è per ciò che anima la società civile. Di fronte al lancio in grande stile di un’Europa neo-autoritaria, già peraltro iscritta nell’Europa reale, si può solo ripartire da tutto quello che la politica istituzionale non vede”.
A chi pensa, Bertinotti?
Ai movimenti sociali che non si sono arresi a questo ordine imposto e hanno continuato a costruire resistenze, segmenti di società diversa fondati sulle relazioni reciproche, a cominciare dai rapporti di solidarietà. Sono questi i prati e i fili d’erba della speranza.
Nomi e cognomi?
Penso al movimento “Non una di meno” contro la violenza maschile sulle donne, allo sciopero contro Amazon, il primo del genere in Italia e non solo, all’opera del Banco alimentare, alle mille forme di accoglienza dei migranti, a chi fa sostegno scolastico, ai ciclo-fattorini in Belgio che si sono mobilitati contro Deliveroo e il suo algoritmo.
A proposito di lavoro. Ci dicono che l’Italia è fuori dalla crisi, ma l’analisi dei dati mostra una realtà completamente diversa.
E’ vera ripresa quella che porta con sé una controriforma sociale del lavoro? Se aumentano solo i contrati a termine e la disoccupazione giovanile è ferma al 34 per cento, come si fa a parlare di ripresa? E’ stato il presidente della Bce, non il capo della Fiom a dire che la questione chiave è la crescita dei salari.
I mondi che lei ha citato avevano un’espressione naturale nella rappresentanza politica. Perché oggi non è più così?
La risposta è drammaticamente facile: perché la politica ha abbandonato il popolo e i nuovi vincitori hanno costruito un modello economico e sociale fondato sull’individualizzazione mercantilista. Questo modello ha divorato la politica istituzionale, che è rimasta imprigionata in una logica di mero supporto delle oligarchie di potere.
Ma si può ricostruirla?
Oggi la politica può rinascere solo dalle sue ceneri. Vedo invece i politici fare l’opposto, tentare di riprendersi i brandelli del passato in modo da sopperire al vuoto del presente. Ma un’intera storia è ormai finita. Occorre ripartire dalle persone che costruiscono una società diversa, spesso sulla base di rapporti di gratuità.
Lei ha detto che la politica parlamentare si è assimilata all’establishment. E’ un discorso che accomuna Italia e Unione Europea?
Certo. Di fronte al rifiuto della politica che investe le istituzioni nazionali e sovranazionali e che si manifesta come astensionismo e populismo, la replica delle classi dirigenti è stata l’accentuazione del carattere oligarchico delle decisioni politiche.
Lo diciamo in un altro modo?
I centri di potere hanno costruito un’Europa oligarchica a base di politiche antipopolari, dall’austerity alla demolizione del welfare. Questo ha condotto i popoli ad abbandonare le istituzioni o a criticarle apertamente. Ma la risposta è stata uno sfregio intollerabile: bene — hanno detto —, andiamo avanti da soli, così rafforziamo il comando. E’ il trionfo della tecnocrazia.
E dell’impoverimento di intere società europee. Non crede che in questo modo le tecnocrazie vadano a schiantarsi?
Sì, perché non sanno che cosa stanno provocando. L’unico modo in cui i tecnocrati hanno tentato di rispondere alla crisi della democrazia rappresentativa è il funzionalismo non democratico: stracciare la sovranità popolare e governare senza il consenso.
Di fronte a questo scenario come giudica Grasso, Renzi, Pisapia, Prodi?
Tutte persone rispettabili, ma tutte diversamente prigioniere dello stesso schema di gioco, quello della governabilità. Mettere la governabilità al posto della partecipazione e del conflitto è l’errore tragico che ha ucciso la sinistra.
Sono assimilabili ai loro omologhi di centrodestra?
Non del tutto, perché le risposte all’immigrazione e al fascismo risorgente sono diverse. Ma dal punto di vista del primato della governabilità, certamente sì.
Cosa pensa del tentativo del Pd di ricostruire il consenso e le alleanze politiche concedendo nuovi diritti o allargando la base dei diritti civili esistenti?
Perché lo ius soli è finito in fondo al calendario delle Camere? Conosciamo la risposta: perché rischierebbe di far cadere il governo. E allora io dico: cada il governo. Come posso negare a un bambino che sta a scuola accanto a mio figlio il diritto ad essere italiano? Anche la sinistra attuale può porre la domanda, ma non può fornire la risposta perché la governabilità ha avuto il sopravvento.
Che cosa ci attende nel 2018? Formare un governo duraturo appare molto difficile. Potremmo andare incontro a nuove elezioni politiche oppure al commissariamento del paese. Il problema è che la seconda ipotesi non esclude la prima.
Vede? Torniamo all’inizio. La cosa paradossale è che l’ossessiva ricerca di stabilità da parte delle classi dirigenti ha condotto all’instabilità in tutti i principali paesi europei, perfino in Germania. Questo per un motivo basilare che questa classe dirigente non può e non vuole vedere. Se una grave crisi sociale non viene affrontata, prima o poi diventa crisi politica e istituzionale. Lo vediamo in Europa e in Italia.
Insomma chi ha le leve del potere va avanti senza affrontare le cause vere della crisi. Questo che cosa porta?
Al fatto che per governare servono soluzioni sempre più autoritarie. Contemporaneamente, nel profondo della società, le relazioni si spezzano e nella frantumazione possono crescere nuovi mostri. Se la politica viene meno al suo compito educativo e costruttivo, lascia spazio in alto al neo-autoritarismo, in basso alla guerra civile. E’ una parola forse troppo forte, ma non riesco a trovarne un’altra.
In Germania una soluzione l’hanno trovata: si torna alla Grosse Koalition, la Spd comincerà i negoziati con la Cdu-Csu la settimana prossima.
E’ sempre il gioco dei quattro cantoni. Così come in Italia dopo il voto ci sarà una ricerca di alleanze per governare. Quali alleanze? Quelle possibili, perché le discriminanti politiche, culturali e programmatiche non ci sono più e ciò che ne resta, all’occorrenza, verrà messo da parte.
Varrà anche il partito considerato antisistema, M5s?
Ma certo, perché è antisistema solo dal punto di vista politico, non da quello economico e sociale. Vinto lo scontro politico, anche M5s diventerà esattamente come gli altri.
(Federico Ferraù)