Chi si ferma è perduto, dice un antico adagio. Matteo Renzi proprio a questo sembra ispirarsi, alla vigilia di una direzione cruciale, in cui è vietato sbagliare. L’interrogativo se si dimetterà o meno è quantomeno mal posto. Il vero nodo sono le reali intenzioni del segretario del Pd. Un concetto nella sua testa è chiaro: imperativo categorico è non farsi rosolare, non dare tempo ai suoi avversari di riorganizzarsi, tenendo ben stretto il pallino, dettando i tempi. Chi si ferma è perduto, insomma.
Incassata come una mezza sconfitta la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum, e soprattutto le sue motivazioni, Renzi ha visto allontanarsi la possibilità di elezioni a breve, di fronte alla necessità indicata dalla Consulta di intervenire pesantemente sulla materia elettorale. Inevitabile, almeno dal suo punto di vista, invertire la tempistica sin qui immaginata, aprendo la fase congressuale. E scambiandosi di ruolo con la minoranza interna che sin qui chiedeva il congresso prima delle elezioni.
In linea del tutto teorica per il congresso del Pd potrebbero bastare poco più di due mesi, come fu nel 2013, consentendo il voto a fine giugno. Ma è uno scenario poco probabile, visto che presuppone tempi spediti in Parlamento per la discussione della riforma della legge elettorale, tempi che la galassia democratica, divisa e frammentata com’è, è la prima a non poter garantire.
La (probabile) mossa di Renzi si mostra allora per quello che è: un affondo deciso nei confronti della propria minoranza interna, così da metterla letteralmente con le spalle al muro, una volta per tutte, che si voti a giugno, a novembre, o a febbraio 2018.
Questa intenzione traspare con sufficiente chiarezza dalle parole dei colonnelli renziani. In primis il vice Guerini, che si incarica di pronunciare un roboante “basta” alle tattiche di logoramento, perché “si è superato il livello di guardia”. E’ questa solo la premessa di un affondo ben più serio: “Se si anticipa il congresso — scandisce il vicesegretario — lo si fa davvero, senza formule fantasiose, ma con le procedure e la strada indicata dallo statuto”.
Cerchiamo di tradurre: ai sensi dell’articolo 3, comma 3 dello statuto del Pd ci sono due passaggi essenziali: le convenzioni riservate agli iscritti (di circolo, provinciali e nazionale), da cui devono scaturire al massimo tre candidati da sottoporre alle primarie aperte ai simpatizzanti. A gestire questa fase può essere un segretario di garanzia (o transizione), come fu per Franceschini nel 2009, o Epifani nel 2013. Oppure — altra strada possibile — il segretario in carica, a patto che l’assemblea nazionale decreti il proprio auto-scioglimento.
E che sia questa la probabile idea renziana lo si intuisce dal categorico no a una segreteria di garanzia che il presidente democratico Orfini scolpisce su Facebook. Se così sarà, le varie anime della minoranza democratica si troveranno con gli spazi di manovra ridotti al lumicino. Di fronte a una simile accelerazione qualcuno potrebbe essere seriamente tentato dall’andarsene.
Persino il mite Cuperlo si è spinto a dire che se il congresso si dovesse limitare ai gazebo, non ci sarebbe più alcuna fiducia. Chi, invece, non avrà le valigie pronte dovrà farsi un esame di coscienza e tentare di unire le forze per tentare di impensierire il segretario in cerca di una nuova legittimazione: impensabile che corrano per la segreteria tutti insieme Emiliano, Rossi e Speranza. E negli ultimi giorni ha preso quota l’ipotesi di Andrea Orlando, la cui discesa in campo segnerebbe anche il distacco di una parte dei “giovani turchi” da Renzi.
Ad oggi, però, l’ex premier sembra non avere avversari interni. Fuori dal Pd è però tutta un’altra musica. Incombe soprattutto l’Europa, e Renzi sembra sottovalutarne il possibile ruolo. Intimare in modo chiassoso di non aumentare le tasse ha l’effetto di indebolire il governo Gentiloni. Renzi non ne ha bisogno, perché può staccagli la spina in ogni momento. E un governo debole non fa gli interessi di nessuno, perché rischia di non avere la forza di opporsi alle pressanti richieste di manovre correttive che stanno arrivando da Bruxelles. Il campo dell’economia, quindi, rischia di essere per Renzi un’autentica buccia di banana.