Renzi annuncia il congresso del Pd e prepara le dimissioni. Al termine di una direzione temuta per le possibili conseguenze sul destino del governo, viene approvato con 107 voti un ordine del giorno che impegna l’assemblea del Pd, convocata per sabato prossimo, “a decidere i tempi e le modalità del congresso”. Lo spettro di una scissione non è evitato perché la minoranza ha chiesto, senza ottenerlo, un voto sulla permanenza di Gentiloni fino alla fine della legislatura. Nella grande sala romana di via Alibert, quella in cui Renzi propose e ottenne la designazione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, c’è la tensione palpabile della resa dei conti ma anche la prudenza dei mille tatticismi. In platea c’è Padoan e sul palco Gentiloni, parlano Cuperlo e Bersani ma non D’Alema. “Doveva esserci lo scontro, abbiamo assistito a un’assemblea leziosa, quelle tipiche discussioni che hanno allontanato la gente dai partiti” dice al sussidiario Peppino Caldarola. 



Qual è la novità politica, Caldarola?

Questa volta si chiama Andrea Orlando. Con la proposta della conferenza programmatica si è messo in posizione di dialogo con tutta la sinistra. Una posizione non di rottura con Renzi ma molto critica. Non ha dichiarato apertamente la sua candidatura, ma è come se lo avesse fatto. 



Michele Emiliano?

Il suo doveva essere l’intervento bomba che stende Renzi, ha parlato come un guerriero che però cerca la pace. Emiliano non intende rinunciare alla Puglia per dirigere un partito. Ha consenso, ma ora sta tentando di capire dove collocarsi: è abbastanza realista per sapere che Renzi, soprattutto fra gli iscritti al Pd, in questo momento gode ancora di un consenso ampio. 

Ampio quanto?

La componente ex Pci in parte se n’è andata oppure non si è più iscritta, mentre i tesserati che fanno capo a Franceschini, Delrio e Renzi ci sono ancora.

Tutto come prima dunque per Renzi?



No. Non c’è stato il “regicidio”, ma non c’è più il gruppo che si era costituito intorno a Renzi, che riconosceva la sua leadership e si era impegnato a seguirlo nelle sue avventure.

Il gruppo di Orlando e Franceschini.

Il fatto che Orlando abbia scelto il ruolo di mediatore, cercando di contenere Renzi, è una novità, la novità che riguarda l’ex premier più da vicino. La sfida contro di lui si allarga, conquista pezzi di governo. E Renzi lo ha capito.

E Franceschini?

Della maggioranza renziana è il politico più esperto. Vede accresciuto il suo ruolo: non ha nulla da guadagnare se la sinistra se ne va, e non ha nemmeno nulla da guadagnare da una sconfitta di Renzi. Se Orlando indebolisce Renzi da sinistra, Franceschini ora lo frena dal centro moderato del Pd.

Renzi ha detto: congresso prima del voto. Ma a Bersani non è bastato: la gente sa che governiamo noi, non puoi evitare di dire quali sono i tempi delle urne, ha replicato al segretario. 

Si è trattato di una discussione leziosa: le camere vengono sciolte a dicembre 2017, due mesi prima della fine della legislatura. Cosa importa alla gente che si voti a ottobre o a febbraio? L’obiezione di Bersani però è fondata, perché Renzi ha lasciato indeterminato il tema della durata della legislatura.

Infatti la minoranza ha presentato un odg per chiedere di “sostenere il governo Gentiloni fino a scadenza naturale mandato” ma il testo non è stato votato. Così la minoranza si tiene le mani libere. 

Il tema della scissione resta sullo sfondo e la situazione può sempre precipitare, se le condizioni poste da Enrico Rossi e Bersani non sono mantenute.  

Cosa depone a sfavore della scissione e a vantaggio di Renzi?

Gli eventuali scissionisti non hanno in mente cosa possono creare fuori dal Pd.  

La direzione ha approvato l’odg della maggioranza che invita “il presidente dell’assemblea nazionale a convocare l’assemblea per l’avvio dell’iter congressuale”. Ora cosa succede?

Il giorno decisivo è sabato prossimo o domenica, quando viene convocata l’assemblea. Intanto Renzi deciderà per le dimissioni, perché senza quelle il congresso non si può fare. Il tema quindi non è dimissioni sì dimissioni no, ma quali saranno i compiti dell’assemblea. Si tratterà di capire se il mandato è l’apertura di una procedura congressuale vera oppure un congresso-lampo di due mesi. 

Che differenza c’è tra le due cose?

Sono due possibilità, una più virtuosa dell’altra ma legittime entrambe. Nella prima le tesi congressuali si misurano con un nuovo tesseramento e poi si votano i candidati. E’ la via più virtuosa perché offre alla minoranza due garanzie: si gioca sugli iscritti che ciascuno può ancora sollecitare e dà il primato al legame tra candidato e proposta politica. 

E la seconda strada?

Prevede di fare il congresso con gli iscritti attuali, i quali decidono il primo, il secondo e il terzo candidato: fatto questo si va a primarie. E’ meno virtuosa perché mette gli iscritti in condizione di contare di più. Il punto è: chi in questi anni ha iscritto più persone al partito?

Azzardiamo due nomi: Delrio e Franceschini.

Esatto. E sono una componente che pesa molto, più di quanto si creda, mentre quella più di sinistra è largamente minoritaria, un po’ perché disaffezionata al Pd e un po’ perché incardinata solo su Bersani, ultimo segretario sconfitto.

Una soluzione quest’ultima che favorisce chi ha in mano l’organizzazione del partito, cioè Renzi attraverso Guerini e Orfini.

Sì. Ma c’è un elemento tattico da valutare. Un anno e mezzo fa Renzi poteva pensare — con ragione — che se dal Pd usciva Stefano Fassina, non sarebbe cambiato nulla. Ora la questione è più delicata perché si tratterebbe di una scissione che potrebbe portare con sé tutta la minoranza. 

Cosa potrebbe fare?

O decide di andare avanti da solo e di fare un suo partito, oppure capisce che gli conviene pagare un prezzo politico ma tenere unito il Pd, potendo pensare, ragionevolmente, di essere ancora il più forte dei candidati. 

E Gentiloni?

Può dormire tranquillo.

(Federico Ferraù)

Si è trattato di una discussione leziosa: le camere vengono sciolte a dicembre 2017, due mesi prima della fine della legislatura. Cosa importa alla gente che si voti a ottobre o a febbraio? L’obiezione di Bersani però è fondata, perché Renzi ha lasciato indeterminato il tema della durata della legislatura.

 

Infatti la minoranza ha presentato un odg per chiedere di “sostenere il governo Gentiloni fino a scadenza naturale mandato” ma il testo non è stato votato. Così la minoranza si tiene le mani libere. 

Il tema della scissione resta sullo sfondo e la situazione può sempre precipitare, se le condizioni poste da Enrico Rossi e Bersani non sono mantenute. 

 

Cosa depone a sfavore della scissione e a vantaggio di Renzi?

Gli eventuali scissionisti non hanno in mente cosa possono creare fuori dal Pd. 

 

La direzione ha approvato l’odg della maggioranza che invita “il presidente dell’assemblea nazionale a convocare l’assemblea per l’avvio dell’iter congressuale”. Ora cosa succede?

Il giorno decisivo è sabato prossimo o domenica, quando viene convocata l’assemblea. Intanto Renzi deciderà per le dimissioni, perché senza quelle il congresso non si può fare. Il tema quindi non è dimissioni sì dimissioni no, ma quali saranno i compiti dell’assemblea. Si tratterà di capire se il mandato è l’apertura di una procedura congressuale vera oppure un congresso-lampo di due mesi.

 

Che differenza c’è tra le due cose?

Sono due possibilità, una più virtuosa dell’altra ma legittime entrambe. Nella prima le tesi congressuali si misurano con un nuovo tesseramento e poi si votano i candidati. E’ la via più virtuosa perché offre alla minoranza due garanzie: si gioca sugli iscritti che ciascuno può ancora sollecitare e dà il primato al legame tra candidato e proposta politica. 

 

E la seconda strada?

Prevede di fare il congresso con gli iscritti attuali, i quali decidono il primo, il secondo e il terzo candidato: fatto questo si va a primarie. E’ meno virtuosa perché mette gli iscritti in condizione di contare di più. Il punto è: chi in questi anni ha iscritto più persone al partito?

 

Azzardiamo due nomi: Delrio e Franceschini.

Esatto. E sono una componente che pesa molto, più di quanto si creda, mentre quella più di sinistra è largamente minoritaria, un po’ perché disaffezionata al Pd e un po’ perché incardinata solo su Bersani, ultimo segretario sconfitto.

 

Una soluzione quest’ultima che favorisce chi ha in mano l’organizzazione del partito, cioè Renzi attraverso Guerini e Orfini.

Sì. Ma c’è un elemento tattico da valutare. Un anno e mezzo fa Renzi poteva pensare — con ragione — che se dal Pd usciva Stefano Fassina, non sarebbe cambiato nulla. Ora la questione è più delicata perché si tratterebbe di una scissione che potrebbe portare con sé tutta la minoranza. 

 

Cosa potrebbe fare?

O decide di andare avanti da solo e di fare un suo partito, oppure capisce che gli conviene pagare un prezzo politico ma tenere unito il Pd, potendo pensare, ragionevolmente, di essere ancora il più forte dei candidati. 

 

E Gentiloni?

Può dormire tranquillo.

 

(Federico Ferraù)