Tutto ciò che è reale, è razionale, aveva detto un maestro dei nostri sogni giovanili. Forse non avevamo letto bene la storia del Novecento, con le sue imprevedibilità e le apparenti follie, né abbiamo la consapevolezza necessaria dell’ampiezza e della profondità di questa crisi economica, sociale, politica e anche antropologica che stiamo attraversando da quasi dieci anni.



Sia il “diavolo”, visto anche in senso laico, sia quello che definiamo il caos, probabilmente non solo esistono, ma hanno anche una funzione preminente nel dettare i tempi della storia e delle azioni degli uomini.

In queste settimane assistiamo a una serie di psicodrammi di varia intensità. Quello che si sta svolgendo negli Stati Uniti, con il neopresidente Donald Trump, protagonista di una partita che, nei prossimi due mesi, lo potrebbe anche far cadere secondo alcuni osservatori o probabilmente secondo le speranze di alcuni tifosi della politica. Il secondo psicodramma è la tenuta dell’Europa come costruzione unitaria, che si trova di fronte a delusioni generalizzate, a una grande sfiducia e a prove di fuoco in elezioni nazionali, come Francia (rischiosissima), Olanda e Germania, dove, seguendo lo schematismo semantico e storico di moda, i cosiddetti populismi sarebbero all’attacco. 



Il terzo psicodramma, che fa meno notizia sul piano internazionale, ma che è rilevante per il nostro Paese, è la probabile scissione che si sta consumando nel Partito democratico, tra la maggioranza di Matteo Renzi, la meteora della speranza e della sconfitta rovinosa del 4 dicembre, e la minoranza di tanti vecchi protagonisti, passati dal secolo delle ideologie al mondo post-ideologico senza fare un plisset di cosciente autocritica, come direbbero i vecchi milanesi. 

L’effetto, inutile nasconderlo, sarebbe deflagrante, perché si creerebbe un “buco” politico, al centro del sistema già precario che viviamo oggi, di più del 30 per cento dell’elettorato.



I calcoli, secondo stime approssimative, sono quelli di due partiti: quello renziano, con un 20 per cento, e quello dei dissidenti con un 10-12 per cento. Un’altra scuola di pensiero e di previsione parla di un “renzismo” attestato intorno al 25 per cento e dei dissidenti di sinistra fermi intorno al 7 per cento. La grande giocata del comico Grillo, messo in orbita anche da La casta commissionata da Luca Cordero di Montezemolo e da Paolo Mieli, autentici “geni” del disfacimento e della disgregazione, potrebbe rivelarsi vincente oppure paralizzare il Paese per un bel po’ di anni.

Vari protagonisti si muovono sullo scenario del Pd, dopo la convulsa e quasi inutile riunione della direzione nazionale di lunedì scorso. C’è chi vuole fare l’affondo, come lo stesso Renzi da una parte, ritenendosi ancora una “speranza”, e dall’altra parte un personaggio come Massimo D’Alema, un reperto storico del vecchio “ingraismo” del Pci di stampo togliattiano, prima legato a Mosca con tutti i fili e poi slegato solo indirettamente, anche se “le lezioni del leninismo sono ancora attuali”, parola di Enrico Berlinguer nel 1981. 

Di fronte a questa ulteriore disgregazione politica, si oppongono l’attuale Guardasigilli, Andrea Orlando, diventato anche l’erede di Ugo Sposetti, il “guardiano delle casseforti”. In più si oppone il ministro della Cultura, Dario Franceschini, ex democristiano grande “maestro” di gestione delle tessere e dei posti.

Lo scenario sembra paradossalmente grottesco, con un “gioco a perdere” o con un gioco al massacro che è tipico di una mentalità antipolitica, litigiosa, fatta di risentimenti e di idee di grandezza che fanno venire i brividi alla schiena. Altro che populismo! 

Si vedrà domenica prossima che cosa accadrà, quale scaletta sarà dettata sul congresso, sulle dimissioni del segretario e sul voto, eventualmente passando al grottesco: la sfiducia a un governo, quello di Paolo Gentiloni, che è dello stesso Partito democratico. 

Difficile fare previsioni. Nell’epoca del caos internazionale, il piccolo caos del Pd è solo un epifenomeno, il riflesso di una totale mancanza di visione politica e di una assoluta incapacità di leggere la realtà nell’attuale politica mondiale.  

Tuttavia l’immagine prevalente che appare dall’esterno è quella di un partito dove si è rotta profondamente la solidarietà interna (anche dal punto di vista umano) tra due gruppi anche contrapposti politicamente, dopo almeno cinque anni di divisione su ogni argomento di politica economica, sociale e di progetto di sviluppo. Insomma è come se il Pd, forse anche per la spinta data e voluta da Matteo Renzi, sia arrivato al capolinea e stia dando, a distanza di tempo, ragione a Massimo Cacciari, che lo aveva “bollato a fuoco” fin dalla sua nascita.

Si potrebbe fare un discorso più complesso, più elaborato e più rispettoso di alcune scadenze storiche. La prevalenza della sinistra italiana superstite è di derivazione comunista o di sinistra democristiana. Non ha nulla a che fare con il riformismo socialista europeo, non ha mai conosciuto una vera Bad Godesberg, ha una memoria tanto corta che non si è ancora accorta che dopo il 1989 c’è una serie di storici da François Furet a Stephane Courtois, da Aga Rossi a Victor Zaslavsky, tanto per citarne alcuni, che hanno rivisitato (sulle carte del Pcus venute finalmente alla luce) la storia del comunismo internazionale, anche quello italiano, con tutte le sue complicità vergognose. Tanto per fare un esempio, è stato addirittura Michail Gorbaciov ad ammettere che la tristemente famosa strage di Katyn fu opera dei sovietici in Polonia, quando la invasero in accordo con il nazismo hitleriano.  Questo ha spiegato, di fatto dopo 50 anni, perché i sovietici al processo di Norimberga non volevano che venissero processati i militari nazisti come Keitel e Jodl, gli esecutori degli ordini di Hitler.

In Italia, dove il riformismo non è mai stato di moda, ci si è dimenticati per mezzo secolo delle foibe e, in seguito, una volta ricordate e spiegate, si cerca di dimenticarle di nuovo. 

Si potrebbe quindi dire che la “sinistra vincente” in Italia sia arrivata alla resa dei conti con la storia, con tutta l’ipocrisia che l’ha accompagnata dal 1956 al 1964, dal 1979, al 1981, fino alla “svolta” della Bolognina e all’irruzione sulla scena del catastrofico Achille Occhetto, con la sua “macchina da guerra” che poi perse contro l’improvvisatore Silvio Berlusconi.

E ci vorrà ancora molto tempo, per rifare una storia seria e completa del Pci e della sinistra madre di questo Pd, tra togliattismo, attacchi vergognosi a Giorgio Amendola (che divenne una questione all’interno del partito), fino all’ambiguità e al riconoscimento di una sconfitta dopo l’ennesimo applauso al leninismo e l’innamoramento per la “questione morale” del nostalgico Enrico Berlinguer, quello che Giancarlo Pajetta definiva: “E’ stato iscritto alla segreteria del partito fin da quando era ragazzo”.

Ma in fono la sedimentazione di una “cattiva coscienza storica”, in quelli che dovrebbero essere storicisti, non è molto importante in questa crisi. Qui siamo all’agonia della politica in generale, a un partito che dalla difesa dei lavoratori è andato oltre la socialdemocrazia (Giuseppe Saragat è sempre stato anticapitalista) fino a sposare il liberismo e la visione di Giavazzi e Alesina, i dioscuri del “liberismo è di sinistra”. I difensori d’ufficio del capitalismo finanziario.

A ben vedere è una tragedia. Ma a Renzi non sembra che in fondo dispiaccia. Nella sua complessiva irresponsabilità (se ci è permesso dirlo) sembra sognare ancora in grande, pensa sempre agli insegnamenti di JP Morgan e addirittura, a quanto sembra, ha parlato persino a un “rivoluzionario” come Flavio Briatore per costruire un minimo di dialettica con Trump.

E’ difficile prevedere tutto, in questo caos e in questa mancanza totale di riferimenti. Può darsi che Marine Le Pin perda, che Trump sia messo con le spalle al muro, che la Merkel e l’Europa si salvino, che Renzi resti segretario del Pd. Può capitare questo o il contrario. Ma la disgregazione, qualunque sia il risultato di questo 2017, resterà come attestato di una totale incapacità e inadeguatezza rispetto al futuro. Il Pd si spacca, come di fatto hanno già ammesso in molti, oppure resta unito per convenienza. Ma  di fatto è morto per consunzione ideale.