Oggi si vedrà se il Partito democratico formalizzerà la scissione che, in questi giorni e anche ieri al Teatro Vittoria di Roma, si sta consumando in una sorta di psicodramma difficile da inquadrare. Oppure se ci sarà un temporaneo ripensamento, con un ritorno a una convivenza quasi forzata all’interno di uno stesso partito.



E’ vero che la sconfitta del Pd di Matteo Renzi, il 4 dicembre sul referendum costituzionale, ha sancito non solo una sconfitta complessiva, ma ha ratificato anche una profonda divisione interna tra la maggioranza e la minoranza. Ma ad ascoltare i protagonisti della riunione del Teatro Vittoria è veramente difficile immaginare che sia stato solo il risultato del referendum del 4 dicembre a minacciare una “parabola” scissionista, anche se non si formalizzerà oggi, all’interno del Pd.



Se si guarda alle dichiarazioni di ieri, da una parte e dall’altra, appaiono subito due posizioni molto nette: quella di Massimo D’Alema, che non parteciperà neppure alla riunione di oggi, e quella del vicesegretario di Renzi, Lorenzo Guerini, che ha commentato con durezza su twitter: “Ci sono toni e parole che nulla hanno a che fare con una comunità che si confronta e discute. Gli ultimatum non sono ricevibili”. E Guerini, ovviamente, si riferiva al dibattito che Michele Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza dirigevano al “Vittoria”.

Tra queste due posizioni molto rigide e nette, che paiono già portatrici di una decisone, c’è una sarabanda di critiche contorte, di discussioni infinite sulle date, sulla necessità di un congresso da fare a giugno o in autunno, sul governo Gentiloni, sulla necessità di andare al voto, sull’identità che deve avere il futuro del Partito democratico.



In effetti, si capisce dal tono dei vari interventi che c’è una sorta di “palude” che discute, che si appella “alla gravità della situazione”, al “nostro popolo” e a varie alte frasi retoriche per salvare il salvabile, cioè per tenere unito un partito che, altrimenti, si vedrebbe ridimensionato nei voti e quindi non più al centro della politica italiana e soprattuto nei seggi parlamentari.

In questa vicenda si può quindi intravedere una doppia partita. Massimo D’Alema non ha proprio un carattere facile e non sprizza simpatia, ma ha avuto da mesi le idee chiare: il Pd si è trasformato, è un partito dove non è possibile, per le sue idee, convivere sotto la regia politica del renzismo. Inoltre lo stesso D’Alema, lo si voglia o no, è l’unico che, di tutta la lunga vicenda postcomunista e del ruolo giocato dalla sinistra in questi anni, ha fatto una parziale autocritica. In sintesi, nella sua durezza e nel suo rifiuto D’Alema è mosso da risentimento (la rottamazione non deve averla digerita), certo, ma anche da una considerazione storica che sente il dovere di fare. 

A suo modo, Guerini risponde invece alla svolta che Matteo Renzi ha impresso al Pd: quello di un partito che è stato traghettato, con una discussione piuttosto spicciola e schematica, nel blairismo “di destra”, se è possibile dirlo.

Tolte queste due figure (ovviamente esemplificative di tante altre persone che vedono la necessità di una continuità di sinistra o di un salto deciso nel centrismo con connotati filoliberisti, fino in contiguità con le visioni di JPMorgan), c’è il trattativismo a oltranza, per togliere potere a Renzi, per guadagnare posizioni e forse anche mascherare meglio i rapporti con la base che è chiamata a votare.

Se si mettono in fila la telefonata “necessaria” che doveva fare il segretario, il “fuori onda” di Graziano Delrio, le critiche che arrivano anche da Dario Franceschini e persino da Maria Elena Boschi, si capisce che il segretario è abbastanza isolato, anche nella sua maggioranza. Ma tutto sommato, avendo ancora una forte maggioranza, cerca di fare il più in fretta possibile per consumare quella che sarebbe la sua “vendetta”, contro il Paese e il partito, e restare in sella per un’improbabile rivincita. A cui solo lui cede.

Tutto sommato, in questo dibattito così concitato e così drammatizzato, c’è veramente poco di ideologico, di identitario e anche di politico. C’è una partita di potere di una sinistra che si è smarrita in questi venticinque anni di confusione e di acrobazie politiche, passando da una “complicità” con l’operazione “Mani pulite” (l’amnistia decisa nel 1989 salvò i “pagati” da Mosca e dal finanziamento illecito) e poi si compattò, fatto fuori ogni disegno riformista, solo contro il berlusconismo. 

Ora, costruire una politica e un partito solo contro il berlusconismo è quasi comico, perché poi, finite le stravaganze e le inadempienze storiche del Cavaliere, bisogna fare i conti con la realtà e alla fine con il “rampante grillismo”.

Sta cambiando il mondo, anzi è già cambiato. La globalizzazione non è stata regolata e la sinistra non l’ha certamente studiata per regolarla. Ha dato l’impressione di sposarla acriticamente. I frutti che riceve, in Italia, ma anche nel mondo intero, hanno provocato una delle più radicali ventate di destra dall’ultimo dopoguerra.

Alla fine, sono quasi banali e grotteschi sia la difesa del renzismo che la presunta svolta di una rinnovata e immaginaria sinistra. I prossimi mesi, a livello mondiale, decideranno probabilmente anche il futuro italiano. I tempi dorati dell’antiberlusconismo sono terminati e occorreva costruire qualche cosa di nuovo, non straparlare sulla “ripresa imminente”, sulla “luce in fondo al tunnel”. Non ci crede più nessuno, anche nei supporter del Pd sia di destra, di centro o di sinistra.