Devo confessare in via preliminare che ho voluto assecondare il desiderio della ragione di comprendere se ci fosse una qualche legge di una qualche scienza per comprendere le vicende che sono partite prima dello spartiacque del referendum costituzionale trovando culmine nel 4 dicembre scorso, quando ha perso il Sì. Ma quello, a dir comune, è stato l’inizio. Sebbene un senior della politica, molto vicino al Vaticano e al contempo portavoce di Craxi, nonché facilitatore e testimone dietro le quinte di alcuni dei maggiori eventi nazionali, mi abbia ricordato ieri che la politica è una scienza esatta, continuo a stento a credergli. E questo nonostante abbia avuto come professori alla Sapienza tra Scienze Politiche ed Economia Moro, Scoppola, Bachelet, Caffè, Tarantelli e come frequentazione leader della Democrazia Cristiana come Fanfani, Andreatta, Donat Cattin, Anselmi, Martinazzoli. Forse è per questo che dopo il ‘91 smisi di fare politica. 



Avvenne questo, senza accorgermi che la passione, diventata cenere, aveva lasciato ben coperta qualche brace. Il presente l’ha rinfocolata riavvicinando alla ragione anche un’emozione civica superiore a quella del diritto al voto. Questo è quello che ho provato in questi tre ultimi anni e in particolare in questi giorni, pur non appartenendo al Pd, ma affidando solo ad alcuni miei tweet spunti di riflessione. 



Già il Pd, la sua evoluzione, il suo destino! Ma non solo del Pd, bensì, pure, del governo, della sinistra, o meglio del centrosinistra. Si può dire che quanto stia avvenendo oggi nel Pd possa essere oggetto di un esame della politica quale scienza esatta? A mio modesto parere no. E credo che in parallelo confortino a questo tanto alcune analisi fatte da Ezio Mauro quanto quelle, sfiziosa l’ultima, di Michele Serra. Ho partecipato sia ai lavori del “rilancio della sinistra”, con un richiamo ai suoi valori da parte della minoranza Pd che Peppino Caldarola ha presentato al Teatro Vittoria, sabato, sia all’Assemblea nazionale ieri. Al Teatro Vittoria è stato presentato il trio candidato alla prossima segreteria Rossi, Emiliano e Speranza. A calcio si direbbe che sono le punte di una squadra che ha le sue radici storiche e al contempo durature in Macaluso, numero due del Pci di Togliatti, e poi in D’Alema, Bersani e tanti altri che pubblicamente o meno legano politica e sindacato, realtà locali e civiche, associazionismo passato e recente in una tradizione di sinistra che, nel tempo lontano, oltreché Pci e Psi, ha generato un poliforme arcipelago con isole extraparlamentari. 
La caduta del Muro, lo tsunami capitalistico, l’avvento della rivoluzione tecnologica e mediatica, il sopravvento della globalizzazione hanno prodotto cambiamenti dei parametri e delle condizioni politiche e socioeconomiche, che, per il dispiegarsi della storia, sembrano apparire irreversibili. Innestando in questo il fattore generazionale ci si accorge quanto sia difficile in una società – che Baumann definì liquida – il compito della politica. E quanto sia facile trasformare il confronto sul “Che fare?” (diceva Lenin) in una leva di confusione e smarrimento. 



A confusione e smarrimento si aggiunge talvolta acrimoniosità quando c’è lotta tra il desiderio di ancorarsi a certezze che la storia ha reso palesemente stabili al tempo che s’ingenerarono e sfide, anche difficili, anche continue che il futuro impone. Ma chi fa politica lo sa e lo dovrebbe sapere. È una dimensione che fa la differenza nel calo dei dadi per la partita in corso. Questa è la mia opinione su ciò che ha portato il Pdd in questi due mesi a interrogarsi e una parte minoritaria ad alzare l’aut aut della scissione. Anche se lo si è fatto, spesso in modo non corretto, su quanto successo, su quale governo e con quale durata dopo le dimissioni coraggiose Renzi, su quale futuro attendersi, su quale futuro costruire.

Interrogarsi, diceva Emiliano sabato, può arrivare fino all’estremo di una “psichiatria democratica”. Per evitare che si arrivi all’avvitamento e alla perdita di referenzialità e di preferenzialità sociale, bisogna agire. Agire di conseguenza, come dicono anche altri, significa evitare che il Pd con la sua storia decennale, in verità recente germinata tra Ds, Margherita e Ulivo, diventi il Pd della Nazione o peggio il Pd di Renzi. Da qui lo scontro sui tempi e sulle modalità delle verifiche fino ad arrivare all’Assemblea nazionale di ieri che, con le precedenti dimissioni da Segretario di Matteo Renzi, apre de iure il percorso congressuale. 

All’interno di tale percorso, che potrebbe durare fino a quattro mesi, cadono condizioni come macigni. Il lavoro su una legge elettorale condivisibile, le elezioni amministrative e la necessità di stabilità governativa al Paese sia interna che estera, sono ineludibili in presenza sia della richiesta Ue, sia per l’assetto post Brexit, sia per le novità che emergeranno al G7. Tutte s’inscrivono in una più ampia, complessa e critica situazione internazionale. Un esempio? Al multipolarismo tra una Cina comunista a sistema capitalista, gli Usa capitalisti illiberali nell’annunciato protezionismo e la Russia espansionista, si affiancano il revanchismo populista che mina l’Europa e il decorso della Gran Bretagna alla ricerca del suo “New Commonwealth” in partnership angloamericana. Come non pensare che tutto ciò non impatti in un nuovo corso capace di generare spinte ideologiche su cosa voglia dire e fare la sinistra italiana per ritenersi ancora tale? 

Ieri Renzi nel suo intervento di apertura ha detto che non riconosce ad alcuno il copyright di essere di sinistra. Sono invece i fatti che il Pd fa a dare al partito riconoscibilità come casa comune, anche della sinistra; a renderlo comunità dove ci si confronta e non si caccia, e che ha – in come opera il governo che esprime e/o contribuisce a esprimere – il metro per avere ragione o torto, per vincere o perdere. Ecco perché un confronto da esperirsi in una conferenza programmatica tra le varie componenti è emerso come fascio d’assi per costruire un ponte tra maggioranza e minoranza. 

Due risposte. Una è stata quella indiretta di Bersani, fermo sostenitore del confronto sui contenuti di fronte a una gestione personalistica che è arrivata in diretta a Lucia Annunziata (si badi). L’altra è stata quella di Enrico Rossi direttamente a me (si badi) mentre lasciava l’assise. Entrambi hanno affermato che “comunque” con un successivo intervento di terzi, dopo quello da “pompiere” e auspice di reciprocità di Emiliano, è stato riconfermato il muro contro muro.

Sorvolo sull’appiglio che offrono sempre coloro che sono “più realisti del re” o che fanno i “ballon d’essai” inopportuni e controproducenti in queste situazioni. Ma apprezzo come Emiliano, che il giorno prima aveva attaccato duramente il segretario, sia salito sul palco e indirizzandosi direttamente a Renzi, suo dichiarato avversario, gli abbia offerto due passaggi, uno di merito e uno procedurale, per evitare una scissione dolorosa per tutti. È stato come parlare di un divorzio che crea due perdenti e di offrire uno spazio per evitarlo. Lo ha fatto con rispetto: quello stesso rispetto che Renzi in apertura ha evocato citando Don Milani e che spesso a lui, come anche a Maria Elena Boschi, donna in politica, è stato negato. 

Se per me la politica più che una scienza esatta, come appare da quanto sopra, è “l’arte del possibile” (per riprendere una citazione nota) allora forse le novità non saranno quelle rullate dai tamburi nei giorni precedenti, ma quelle costruite con pervicacia e lungimiranza per un possibile successo. E un esempio del “come fare” è sotto gli occhi di tutti. Mario Draghi con la sua opera ha reso possibile una condizione politica per l’Europa, indipendentemente dal fatto che la si voglia portare fino in fondo. Ha testimoniato in una celebre “lectio magistralis” come quanto finora compiuto abbia potuto trovare ideale collegamento con quanto auspicò De Gasperi.