Scissione doveva essere. E scissione — di fatto — è stata. C’è tempo formalmente sino alla direzione di martedì, ma il dado sembra ormai tratto. Il Pd perde i pezzi, e si apre una fase densa di incognite. Unica certezza è che il governo Gentiloni è molto più debole di prima, esattamente quell’esito che la minoranza democratica tentava di scongiurare.
In troppi hanno espresso la convinzione che i giochi fossero già fatti ancor prima dell’apertura dell’assemblea nazionale democratica. E solo per un attimo, quando ha parlato Michele Emiliano, il finale è sembrato in forse. Ma si trattava solamente di una fase del complicato gioco del cerino che si è svolto sotto gli occhi perplessi dei mille delegati. Renzi si è mosso con astuzia, esibendosi in un discorso netto, senza essere offensivo. E i suoi — Orfini in testa — hanno architettato una scaletta degli interventi in cui spiccavano alcuni interventi di ex comunisti come Fassino e Teresa Bellanova, tesi a dimostrare che la navicella renziana non diventerebbe affatto un’accozzaglia di ex democristiani all’indomani della scissione.
Lo schema ha funzionato, anche grazie all’inattesa entrata in scena del fondatore del Pd, Walter Veltroni, da tempo assente dalle scene politiche. La minoranza è scivolata in questo modo nell’angolo, non riuscendo a controbattere al segretario dimissionario. E persino Emiliano è parso poco credibile quando ha assicurato che nessuno ha chiesto a Renzi di non candidarsi per salvare l’unità del partito. Quella proposta provocatoria era venuta proprio poche ore prima dallo stesso governatore pugliese e da Roberto Speranza. E si tratta dell’unica condizione che l’ex premier non avrebbe mai potuto accettare.
Emiliano ha tentato di restituire il cerino che Renzi aveva messo in mano alla minoranza, affermando di avere fiducia in lui. Ma il cerino è rimasto in mano a lui e ai contestatori, in virtù della scelta del segretario dimissionario di non replicare alla fine del dibattito. E a quel punto ai tre sfidanti, Emiliano, Speranza e Rossi, non hanno potuto più evitare di pronunciare loro per primi la parola “scissione”, pur attribuendone la responsabilità al loro antagonista.
Ora solo un’improbabilissima “mossa politica vera” potrebbe evitare il patatrac. Ma quella mossa non arriverà. Ai suoi Renzi ha spiegato di avere atteso anche troppo. E ora è giunto il tempo di accelerare, anche per non lasciare ai suoi nemici interni il tempo per organizzarsi. Se la scissione fosse rientrata avrebbe potuto attendere sino al 14 maggio per le primarie che lo incoroneranno nuovamente leader del Pd. Visto che ormai la scissione è nelle cose, i tempi saranno molto rapidi, e le regole la fotocopia del 2013. Sul calendario sulla sua scrivania la data cerchiata in rosso è quella del 9 aprile: la domenica delle Palme potrebbe essere quella delle primarie. E il ministro Orlando il suo competitor.
Renzi cerca ansiosamente una nuova legittimazione per affrontare di petto le elezioni amministrative, e farne il trampolino verso le politiche. Nei colloqui con i suoi più stretti collaboratori, infatti, il voto a giugno sembra, al momento, escluso. La corsa verso il 9 aprile passerà per la convention del Lingotto, il 10 e 11 marzo. E poi un vorticoso giro d’Italia.
Nel frattempo, gli avversari con la valigia fatta dovrebbero uscire dai gruppi parlamentari e dar vita a una costituente della sinistra. Ma il tempo per organizzarsi in vista della amministrative sarebbe pochissimo: il simbolo, infatti, rimarrà saldamente nelle mani di Renzi (o di Orfini, che è praticamente la stessa cosa).
A sinistra di Renzi la parola d’ordine è frammentazione: non sono meno di tre i poli di coagulazione di un consenso che nessuno può oggi sapere quanto valga elettoralmente. L’ex sindaco di Firenze è convinto che lo spazio sia piccolo, e che più grandi possibilità si aprano al centro. A contendersi un consenso che ben difficilmente — almeno secondo il Nazareno — supererà il 10 per cento ci saranno gli scissionisti di Bersani, D’Alema e dei tre mancati segretari, la neonata Sinistra Italiana di Fratoianni e l’aggregazione cui sta lavorando Pisapia. Uno sfarinamento che è già di suo indice di debolezza. Del resto, il frazionismo è un male cronico della sinistra, ben prima della scissione di Livorno del 1921.
Renzi, si sa, si muove come un consumato giocatore d’azzardo. Stavolta però il rischio è grande: in una sola mano il leader democratico sembra giocarsi tutto. Sul suo cammino ci sono molte incognite. E’ tutto da verificare, ad esempio, che la scissione sarà solo di dirigenti, e non di base. E poi che le nuove formazioni alla sinistra del PD raccolgano una limitata messe di voti. Soprattutto nessuno oggi può garantire che i voti persi a sinistra verranno compensati con nuovi consensi conquistati in area moderata.
Il suo tirare dritto oggi potrebbe, di conseguenza, schiudere la porta alla consegna del governo al Movimento 5 Stelle. Ma, dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre, Renzi sa che una seconda débâcle non se la potrebbe proprio permettere.