Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, non esce dal Partito democratico. Con coraggio indomito, si fa per dire, dopo aver cambiato posizione tre volte in quattro giorni, rompe il cartello dei tre scissionisti (lui, Rossi e Speranza), si fa largo tra i manifestanti, taxisti e ambulanti, che contestano e urlano a Roma, arriva al Nazareno, sale sul palco della direzione e spara: “Mi candido alla segreteria. Mi candido alla segreteria perché questa è casa mia, è casa nostra. E nessuno può cacciarmi”. 



Altro che strategia dei Dauni, vecchi pirati e audaci trafficanti del basso Adriatico. Emiliano punta a diventare una sorta di emulo del vincitore della terza guerra punica, l’Africano minore, o meglio un Scipione Emiliano alle vongole veraci. Per adesso è uno scissionista pentito, che però attacca: “Enrico Rossi e Roberto Speranza sono persone per bene di grande spessore umano e politico che sono state offese senza ragione da troni arroganti, dal cocciuto rifiuto ad ogni mediazione. Renzi è il più soddisfatto per ogni possibile scissione”. 



Il novello Scipione rivendica: “Enrico, Roberto e io abbiamo impedito al segretario di far precipitare il Paese verso elezioni anticipate”. Poi ancora un attacco a Renzi, che intanto se ne è andato in California, inviando prima di partire saluti quasi irriverenti.

Dice Emiliano: “Matteo ci ha irriso non partecipando a questa direzione. La voglia di andare via era stata tanta ma mi candido nonostante il tentativo di Renzi di vincere il congresso a ogni costo e con ogni mezzo, ha fretta perché non vuole rinunciare alla posizione dominante”. Infine Emiliano tocca i toni dell’epica: “Mi candido perché chi lotta può perdere ma chi non lotta ha già perso”.  C’è qualcuno che commenta sotto voce: “Ma quando si dimette da magistrato? E’ da oltre dieci anni che è in aspettativa  e nessuno dice nulla”. Bazzecole italiane.



Lo scafato Emanuele Fiano coglie la palla al balzo e commenta subito: “E’ una buona notizia. Abbiamo il dovere di portare la democrazia interna verso l’esterno perché non vedo buoni presagi fuori di qui”. Infatti, nonostante passino i giorni e Matteo Renzi si trovi sempre di più su un piano inclinato, dove può solo perdere voti, la candidatura di Emiliano è la più comoda che ci possa essere: garantisce l’immagine di primarie con democrazia interna; contrappone a Renzi un candidato debole e vacillante; offre l’immagine di una scissione (vera e grave) che però viene diluita con uscite graduali e questo permette alla “comunità mediatica” di salvaguardare la “creatura” strana, l’ircocervo orwelliano e crociano, costruito a freddo nel 2007, tra i disastri di Romano Prodi (forse armato di pendolino), le manovre “corrieristiche” con la “casta” e la ripresa degli slanci unitari di Walter Veltroni, che è riuscito in due occasioni al Lingotto a coniugare Totò con Marx, Rita Pavone con Berlinguer, John Fitzgerald Kennedy con i comunisti di stampo togliattiano. Un miracolo visionario, un cemento antiberlusconiano come ideologia di fondo vissuto quasi come un’ossessione. 

Il tutto sta finendo come era inevitabile. Massimo Cacciari, spietato, commenta duramente: “E’ una frammentazione che evidenzia una crisi di sistema. Ma che cosa c’entra Emiliano. Non facciamo ridere, perché siamo di fronte a una tragedia”. Infatti perdere la compattezza interna perché è morto il berlusconismo (una comica) supera ogni immaginazione.

Ma questo non deve stupire nella storia della sinistra italiana. 

Quando Veltroni declamava tutto quello di cui sopra, erano i tempi dell’illusione, della felicità finanziaria e globalista (con Blair e Clinton in pole position), della contraffazione storica di diventare riformisti al posto dei socialisti, mandati tutti alla gogna con l’aiuto di  quei magistrati “eroici” che avevano decapitato la classe dirigente democratica italiana per via giudiziaria, mentre il “prode” Armando Cossutta (con i suoi amici) rientrava nell’amnistia del 1989 e andava tranquillo nella sua villa delle Cinque Terre, pur essendo stato finanziato dai nemici in quella che fu la terza guerra mondiale, ovvero la Guerra fredda.

Tornando dagli epigoni di allora al Nazareno di oggi, naturalmente non sono ancora mancate le ultime mediazioni, gli ultimi spiragli, come quelli di Gianni Cuperlo: “primarie a luglio”. Respinte con perdita e Cuperlo incassa. Poi vedrà lui. Intanto escono Rossi, Speranza, Bersani e i suoi, oltre a Massimo D’Alema, che forse vuole fare un movimento o qualche cosa d’altro, non certo di piacevole nei confronti di Renzi e del renzismo, per finire in questo modo maldestro la storia di una sinistra italiana che, se aspettava ancora quattro anni, poteva festeggiare la scissione di Livorno del 1921, mentre il fascismo era alle porte e in quella sede si preferiva attaccare Filippo Turati e Anna Kuliscioff. Questa era la “lungimiranza” dei veri leader di quella scissione: Amedeo Bordiga e lo scatenato Nicola Bombacci, che poi finì a Dongo e a piazzale Loreto con Benito Mussolini. Cose che capitano in questa storia di una sinistra italiana confusa, dove il disvalore più grande è stato sempre il riformismo.

Oggi, come dice Massimo Cacciari, siamo arrivati alla crisi di sistema e alla frammentazione, con le elezioni amministrative alle porte, che probabilmente daranno un’ulteriore accelerazione alla crisi in atto nel Pd, oltre al contesto internazionale che, lo si voglia o no, vede un Donald Trump alla Casa Bianca con cui occorre fare i conti, in modo intelligente, senza sposarne la linea di vecchia destra ottocentesca. C’è un “rischio francese” che mette i brividi alla schiena, ci sono scadenze elettorali in Olanda e nella stessa Germania che lasciano con il fiato sospeso per il futuro in Europa. 

Segno dei tempi, è il quadro nazionale, quello italiano, in cui si sta consumando questa scissione in ordine sparso del Pd a mettere inquietudine. Faceva impressione ieri, la dura manifestazione dei tassisti, con picchetti davanti a Montecitorio, in attesa di rattoppare un “emendamento” che è stato fatto passare a notte fonda da quell’elegante signora di sinistra che è Linda Lanzillotta — diventata una sorta di “femme fatale”, che si è messa in corsa con la signora Elsa Fornero nella nobile gara per lo scettro della  più “antipatica del regno”. Poi c’erano davanti al Nazareno, tanto da costringere i membri della direzione a entrare dalla porta posteriore, gli ambulanti maltrattati dalla direttiva Bolkenstein, che azzera licenze e mette a “pane e pesce” 200mila lavoratori.

Intanto, mentre latitano le feste di commemorazione di Tangentopoli e qualcuno straparla di 100 miliardi di corruzione, che persino il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, giudica uno sproposito, il vecchio “eroe” Antonio Di Pietro, nel suo profumato italiano ricco di congiuntivi e di metafore eleganti, spiega che “mani pulite fu fermata. Lo ha detto il Copasir in due relazioni del 1995 e 1996”. Il minimo che si possa fare è andare a vedere.