“Anaffettivo”. Così Emiliano ha definito Matteo Renzi. Non è una critica di poco conto per chi pensa che il Partito democratico debba essere una comunità. Ma ha ancora senso, nel XXI secolo, parlare dei partiti come di comunità politiche? La “ditta”. Così Pier Luigi Bersani usava chiamare un partito verso cui — malgrado le sue trasformazioni profonde, dal Pci al Pds, dai Ds al Pd — non ha mai smesso di nutrire un senso di appartenenza profonda. Ma poi è accaduto l’impensabile: Bersani ha abbandonato la “ditta”, tradendo — almeno apparentemente — non solo un partito ma anche il senso stesso di una vita, la sua, basato sulla fedeltà.
Non sappiamo che cosa accadrà al Partito democratico nelle prossime settimane o nei prossimi mesi, ma una sensazione sembra oggi imporsi con forza: quella della morte del partito novecentesco che oltre a coagulare interessi e convenienze sapeva mobilitare affetti, suscitare passioni, creare identità.
Tutta colpa di Renzi? Quando si farà la storia della scissione di questi giorni, si capirà che le cose sono più complesse. Certo, fa impressione che il segretario del Pd voli in California, proprio mentre il suo partito è in preda alle convulsioni. Ma ha una logica che il leader del Partito democratico vada a cercare modelli per un’innovazione di cui l’Italia ha profondamente bisogno. E poi, a distanza di oltre due mesi, la vittoria del No al referendum — motivazione vera della scissione in corso, molto più delle controversie sulla data del Congresso — non ha ancora trovato una spiegazione plausibile. E’ comprensibile che quanti lo hanno sostenuto escano oggi dal Partito democratico, ma se sembra trattarsi di una minoranza piuttosto esigua non è un caso: le tante componenti diverse che hanno fatto prevalere quel No non sono riuscite ad esprimere un progetto comune.
Renzi non è isolato nella sua concezione cool della politica. Il panorama politico italiano è oggi popolato da molte creature a sangue freddo, compreso Matteo Salvini, le cui uscite sempre più esasperate non riescono a riempire il vuoto lasciato dal tramonto di un rappresentante umanamente autentico, seppure politicamente discutibile, come Umberto Bossi. Ancor più del Pd — che, a sua modo, sta vivendo un dramma o, almeno, uno psicodramma — animale a sangue freddo è inoltre il Movimento 5 Stelle, in cui non si riesce a intravedere né il pathos dell’ideologia, né la passione di un’ideale, né la solidarietà di un’appartenenza comune. La comunicazione via web, infatti, suscita reazioni fredde, come l’ira per l’imbroglio, l’odio per il nemico, lo sdegno per il complotto, ma difficilmente scalda i cuori. Lo ha mostrato in questi giorni il confronto tra la politica grillina e la fede romanista, una delle poche passioni che riesce a scaldare una città esangue com’è oggi Roma: anche se tanti romani hanno votato per Grillo, i funambolismi di questo o dei suoi seguaci sulla questione dello stadio hanno suscitano una reazione inaspettatamente compatta che ha finito per imporsi.
Quanto sta accadendo nel Pd, dunque, non è incomprensibile. Facciamo però fatica ad accettare che — a parte estemporanee incursioni della passione calcistica sul terreno politico — la politica italiana sarà in futuro solo gioco di interessi, calcolo di convenienze, scontro di potere. E’ questa la ragione profonda di un’irritazione forte e diffusa verso Renzi anche da parte di chi lo sostiene ma che lo vorrebbe diverso e cioè capace di creare comunità oltre che imporre la sua volontà di fare.
Sono attese che in questi giorni si rivolgono verso una figura più rassicurante come quella di Paolo Gentiloni, il cui stile misurato non comunica freddezza ma responsabilità. Una fiducia analoga si rivolge con intensità forse ancora maggiore verso la figura del presidente Mattarella, che nella lontana Cina sembra interpretare con convinzione un senso antico eppure sempre valido della politica come servizio al proprio paese, collaborazione tra i popoli, costruzione della pace. Si vedrà, nei prossimi mesi, se le sue preoccupazioni per il bene comune saranno accolte e condivise.