Per mesi ha bloccato il dibattito politico, ha stoppato le fughe in avanti, ha accentrato le discussioni. Si è fatta attendere come una cometa rivelatrice. Dopo di lei, tutto sarebbe ripartito come se si fosse stati all’anno zero perché i destini sarebbero stati luminosi, gli obiettivi evidenti, la strada per raggiungerli spianata. La sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale del governo Renzi avrebbe dovuto spalancare le porte all’ultima fase della legislatura avviando un chiarimento tra le forze politiche, incapaci sia di far passare riforme (bocciate dal referendum) sia di dare agli elettori un sistema che li rappresenti e, al tempo stesso, che rispetti le regole fondamentali della Repubblica.



La sentenza è arrivata a fine gennaio. Le motivazioni sono state rese note ai primi di febbraio. È passato oltre un mese e tutto è fermo. Nessuno ha preso un’iniziativa seria, si aspetta sempre che qualcun altro faccia il primo passo. Il governo, che al tempo di Renzi si era mosso come un blindato tra le trincee avversarie, con Gentiloni si fa signorilmente da parte per lasciare l’iniziativa ai partiti. Il Pd si frantuma, il centrodestra non si compatta. Nemmeno lo spauracchio dei 5 Stelle, che avvertono solo marginalmente le scosse romane, riesce a coagulare maggioranze temporanee in grado di varare un nuovo sistema elettorale.



Ora una delle incognite sul cammino della nuova legge è venuta meno: il Pd andrà a congresso e il segretario Renzi non avrà le urne a giugno. Il Parlamento dovrà mettersi a lavorare seriamente per trovare un accordo. E questa potrebbe essere l’occasione in cui Renzi consumerà la vendetta contro gli scissionisti del Dp. Basterebbe inserire nel meccanismo di voto una soglia di sbarramento del 5 per cento, ma potrebbe essere sufficiente anche il 4 (i sondaggi dicono che il nuovo soggetto della sinistra supererebbe di poco il 3), e Speranza e soci sarebbero fuori.

Con una Consulta che ha spinto verso il ritorno al proporzionale, un limite ai mini partiti sarebbe opportuno per non consegnare loro un potere di interdizione sproporzionato rispetto alla reale rappresentanza. Forza Italia potrebbe essere d’accordo, e questo confermerebbe che l’asse su cui si reggerà la prossima legislatura sarà un accordo Renzi-Berlusconi senza più le difficoltà del Patto del Nazareno perché entrambi si saranno ormai liberati delle rispettive zavorre: la Lega populista da un lato, la sinistra più nostalgica dall’altro. 



Il vero ostacolo sarebbe rappresentato dai centristi di Alfano, cui spetta un minimo di riconoscenza per i cinque anni di puntelli ai tre premier del Pd (Letta, Renzi, Gentiloni). Ma non sarebbe la prima volta che Renzi scarica qualcuno cui ha promesso qualcosa. E poi molto presto ci sarà un altro terreno per sfamare gli appetiti di poltrone: quello degli enti con vertici da rinnovare. Che sono numerosi e importanti. Sarà una partita tutta da seguire, perché la distribuzione dei posti servirà a sistemare anche altri fronti. Come quello dei rapporti con i giornali, per esempio, che non hanno fatto sconti all’ultima fase del Renzi premier.

Le grandi aziende di stato, che vanno al rinnovo dei posti apicali, sono infatti tra i pochi investitori pubblicitari rimasti a pianificare campagne importanti sulla carta stampata. E se i giornali vorranno continuare ad avere questa pubblicità per garantirsi la sopravvivenza, dovranno ammorbidire certi toni antirenziani. Tra legge elettorale e nomine, l’ex premier ha importanti mosse da giocare dietro le quinte mentre il dibattito “ufficiale” sarà tutto preso dalle lotte congressuali.