Renzi ha deciso: voto a giugno. A tutti i costi. Come ottenerlo? L’ex premier sta lavorando ad un accordo politico con Franceschini, Orlando e Alfano. Lo schema è semplice: i primi gli danno i voti necessari per fare pressione su Gentiloni e all’occorrenza sfiduciarlo senza incognite, mentre il segretario del Pd garantisce alle loro componenti i posti in lista (e magari — si vedrà a chi — la presidenza di una camera). Ma l’opposizione dem non ci sta: Renzi “non parte dal paese, ma dal voto. Invece il paese viene prima del voto e prima del Pd” — dice al sussidiario Francesco Boccia, presidente della commissione bilancio della Camera. Dalla legge elettorale e all’Europa, ecco le sue scelte.
Onorevole Boccia, la situazione è apparentemente bloccata. Renzi vuole votare subito per non fare il congresso; i suoi oppositori vogliono il congresso per non andare al voto.
La semplificazione è vera solo per metà: chi vuole il voto a giugno lo fa per evitare il congresso, ma è sbagliato pensare che chi vuole il congresso lo faccia per votare più in là.
Immagino che lei stia in questo secondo gruppo.
Da quando il Pd è il partito democratico che molti di noi hanno sognato e costruito fin dall’Ulivo di Prodi, ogni volta che un segretario ha rimediato una sconfitta ha ritenuto opportuno lasciare spazio a un confronto interno. Così è stato per Veltroni e per Bersani. Nei grandi partiti di massa si fa così.
Cioè in che modo?
A quattro anni dall’elezione di Renzi a segretario, vale a dire a giugno — e cioè sei mesi prima del voto finale che elegge il nuovo segretario — il presidente del partito è obbligato ad aprire le procedure concorsuali. In questo modo faremmo il congresso prima delle politiche.
Renzi non vuole sentir ragioni. Si è detto pure pronto a ritirare la sua candidatura a premier purché si voti subito; e ieri ha aperto al premio di coalizione, alle stesse condizioni. “Fermati un istante” gli ha detto Cuperlo. E lei?
Il punto è che un bilancio di ciò che è accaduto in questi quattro anni è inevitabile. Tutti coloro che chiedono il rispetto delle regole avrebbero tranquillamente già aperto il congresso il 5 dicembre. Io stesso l’ho fatto nella prima direzione dopo il referendum, lo stesso hanno fatto Cuperlo, Rossi, Emiliano.
Renzi però dice che non lo avete voluto. Lo ha scritto anche nella Enews di lunedì.
Falso. Perché non fa nomi e cognomi? E’ tutto agli atti, vada a vederseli. Noi abbiamo chiesto il congresso, ma la risposta non c’è mai stata. Renzi ha chiuso accordi con qualcuno dell minoranza? Faccia i nomi, gli elettori vogliono saperlo. La verità è che questi accordi non esistono e a Renzi è rimasta la seggiola attaccata al didietro, come lui amava dire di chi voleva rottamare.
Intanto però è il segretario che fa le liste e decide chi si candida.
Ragionare così vuol dire non partire dal paese, ma dal voto. Invece il paese viene prima del voto e prima del Pd. Gentiloni ha davanti una serie di priorità, tante cose da rimettere a posto — scuola, banche, enti locali — oltre a grandi sfide in Europa. La legislatura è in dirittura d’arrivo, perché le camere si sciolgono a dicembre; quindi l’ossessione del voto sei mesi prima della scadenza avrebbe senso solo se ci fossero delle ragioni nell’interesse degli italiani, che io non vedo.
Qual è l’interesse degli italiani secondo lei?
Avere una legge elettorale che duri per i prossimi cento anni; mettere a posto le cose che le ho detto e poi andare a votare. Ma prima occorre il congresso del Pd, che deve terminare con le primarie.
Quelle che Renzi ha proposto di anticipare.
Le primarie vere sono previste dal congresso e si fanno al termine della fase congressuale cui devono partecipare i circoli, le federazioni provinciali, tutti i nostri iscritti. Diversamente sono solo una gazebata, l’ennesima scorciatoia per evitare il confronto interno.
Bersani e D’Alema cosa rappresentano? Un’idea diversa di Pd, spinte centrifughe, prove di forza?
Intanto Bersani e D’Alema non fanno cose organizzate nel chiuso di una stanza, ma rappresentano mondi a cui il nostro elettorato ha sempre fatto riferimento. D’Alema da semplice militante ha fatto una battaglia sul referendum costituzionale fuori dai confini del Pd, l’ha vinta mentre noi l’abbiamo persa, e oggi pone un problema di prospettiva politica che dovrebbe essere preso in considerazione prima di additarlo come nemico da battere.
E Bersani?
Bersani chiede certezze sullo spostamento del baricentro del Pd a sinistra. Non è un vezzo. Il 25 per cento di elettori del Pd, ma in alcune aree anche il 30, hanno votato No al referendum. Occorre chiedersi il perché.
E Boccia invece?
E’ un apolide, insieme a Emiliano e ad altri, che chiedono solo un campo di gioco per avere un confronto politico vero. Quel campo di gioco si chiama congresso.
Sempre che si faccia…
Da statuto, a giugno deve essere aperto. Se così non sarà è perché qualcuno avrà violato le regole democratiche che il Pd si è dato. Non è mai successo.
Se si va al voto senza fare prima il congresso?
Finisce il Pd. A quel punto a fare la scissione sarà chi non ha voluto il congresso, non quelli che l’hanno chiesto secondo le regole.
Berlusconi sembra favorevole al premio alla coalizione ipotizzato da Franceschini. E’ la strada giusta?
Queste ipotesi voglio vederle in Parlamento, non sui giornali. Ribadisco una cosa che dico da tempo: eleggiamo i comuni con una sistema proporzionale fatto da liste e coalizioni. Secondo me su questa base un accordo si può trovare. Si prestano a questa operazione sia l’Italicum modificato che il Consultellum. Certo occorre un premio di maggioranza che consente la governabilità, magari abbassando un po’ la soglia dal 40 al 35, 36 o 37 per cento.
I capilista bloccati?
Da cancellare, perché sono una vergogna.
Il riequilibrio del potere mondiale, l’Europa a due velocità, l’euro “irreversibile” secondo Draghi. Sono le grandi sfide che lei ha citato prima. Come vanno affrontate?
Sono molto preoccupato dall’incapacità della classe dirigente politica in Europa. Ritrovarci con Juncker alla Commissione, indicato dalla Merkel anche con i voti della delegazione italiana, e con Schulz al Parlamento europeo sono stati gravi errori politici. Un compromesso al ribasso che ha aumentato l’inconcludenza dell’Europa in questi anni.
L’Europa a due velocità?
Sono culturalmente vicino a Romano Prodi, ma non è quella la soluzione perché di velocità ne abbiamo già tante, con alcuni paesi che hanno l’euro e altri no, alcuni che hanno Schengen e altri no, alcuni che aderiscono a certe convenzioni e altri no.
Lei cosa propone?
I veri stati uniti d’Europa. Se noi europeisti convinti diciamo con forza che l’Europa così com’è non funziona, dobbiamo avere il coraggio di tagliare i ponti alle nostre spalle e mettere insieme banche, debiti, fisco e welfare, altrimenti l’Europa non nascerà mai.
Trump dice che l’euro è un marco mascherato e svalutato che ha consentito e consente alla Germania di fare meglio degli altri i propri affari. Ha torto?
No, non ha torto. Il resto lo ha fatto un’Europa assente. Il primo anno in cui la Germania ha fatto 200 miliardi di avanzo commerciale bisognava imporsi: se voi fate questo, allora noi saliamo al 5 per cento di rapporto deficit/Pil, prendiamo 40 miliardi e li spendiamo in investimenti pubblici in Italia. Non si è fatto perché la politica è debole.
E adesso?
Adesso dobbiamo capire che i nostri amici americani non sono più così amici, che i nostri interessi economici non sono più così convergenti, e che forse aveva senso rompere prima gli schemi raccordandosi con Putin su una serie di interessi economici in Medio oriente, invece di dire signorsì solo quando si è trattato di mettere le sanzioni alla Russia. L’Europa è sempre stata al traino degli Usa, gli Usa sono cambiati e oggi l’Europa è chiamata a fare valutazioni che non pensava di dover fare.
Oggi emergono tre o quattro opzioni sull’Europa: le due velocità, il rigorismo assoluto, gli “stati uniti” d’Europa e infine l’opzione Le Pen-Salvini. Con chi sta il Pd?
La mia opzione glie l’ho detta. Ma se mi chiede cosa pensa Renzi non glielo so più dire.
(Federico Ferraù)