Gli anniversari portano probabilmente sfortuna alla politica attuale. Non sarà una festa il 60esimo anniversario dell’Unità europea dopo il Consiglio europeo di ieri, con quattro paesi che non si adattano al concetto di “Europa a velocità variabile”. E non sarà una festa, a guardare il clima politico italiano e della sinistra in particolare, il congresso del Partito democratico, che è cominciato con i primi discorsi di Matteo Renzi, Michele Emiliano e Andrea Orlando. 



Renzi riparte dal Lingotto torinese, dopo dieci anni dalla fondazione del Pd, quello che nacque dalle acrobazie storiche e neo-ideologiche (definite anti-ideologiche) di Walter Veltroni. Un nuovo partito, che molti definirono un’anomalia, diventò una realtà nel Paese occidentale che aveva avuto una grande forza di sinistra anomala e, incredibile a raccontarsi, per tre quarti e più di tutta la sua storia, anche anti-occidentale.



In altre parole, l’Italia aveva avuto, per tutto il lungo periodo della Guerra fredda, il partito comunista più grande dell’Occidente e il riformismo socialista europeo e italiano era un disvalore dichiarato, neanche si fosse mai dimenticato il “rinnegato Kautsky”, come Lenin aveva bollato, in un celebre pamphlet, un leader storico della socialdemocrazia tedesca.

Poi crollò il Muro e anche le illusioni dell’eurocomunismo e della “scoperta democratica” corretta da quella “progressiva” di Palmiro Togliatti, svanirono. Anche la tardiva ammissione dell’utilità della Nato non si riuscì neppure più a coniugare con il “valore delle lezioni del leninismo”, per citare l’ultimo Enrico Berlinguer. Il quale si convertiva alla “questione morale” e attaccava anche i “miglioristi” del vecchio Pci, come Giorgio Napolitano, dopo aver insultato, in un comitato centrale di due anni prima, l’indomabile Giorgio Amendola, che fino alla morte aveva lottato per battere il settarismo e l’estremismo presente nel Pci e nel sindacato. Si conosce la risposta di Berlinguer: “Il compagno Amendola non conosce l’abc del marxismo”. Un esempio di renzismo acculturato.



Toccò ad Achille Occhetto mescolare le carte con la svolta della Bolognina e cambiare il nome di un partito, di un’ideologia, che veniva definita dai nuovi storici del dopo 1989 (Pipes, Conquest, Courtois, Furet, solo per citarne alcuni) uno strumento perverso da “libro nero”. A quel punto non era caduto solo il Muro di Berlino, ma non esisteva neppure più l’Urss. Occhetto non aveva proprio altre scelte e si arrivò al primo cambio di nome.

Ma il capolavoro del trasformismo e del rimescolamento delle carte storiche lo fece Walter Veltroni che si scoprì (dopo un’infanzia, un’adolescenza, una gioventù e una maturità comunista) un “non comunista”. In un colpo solo, aveva superato anche un leader della sinistra socialista, Riccardo Lombardi, che per distinguersi dall’anticomunismo si faceva chiamare acomunista. 

L’inizio dell’attuale grande confusione sta proprio in quel “gioco delle tre carte” a cui Renzi dev’essersi ormai abituato con la consueta velocità.

Ma la confusione di quel periodo, che conviveva con travagli profondi e scossoni di strana ambiguità nella democrazia italiana, serve a capire perché dieci anni fa nacque un’anomalia, alimentata da ex Pci ed ex esponenti della sinistra cattolica e democristiana, che ha alimentato ancora più confusione e ora, alla luce di una crisi economica epocale, non sa più come identificarsi. 

Renzi si ricandida a guidare di nuovo il Paese e pure l’Europa, che proprio ieri (nell’imminente sessantesimo anniversario) si è spaccata clamorosamente. Renzi si candida contro “i populismi dilaganti” e non riesce a dare una spiegazione al perché questi “populismi” (termine definito in modo sprezzante soprattutto dal Komintern di Stalin e soci)  dilagano e addirittura provocano la Brexit, fanno vincere Donald Trump negli Stati Uniti, minacciano Paesi come la Francia e tutta l’Europa. 

E’ incredibile che in tutta la sinistra europea, ma sopratutto in quella italiana, non ci sia un autentico e aperto dibattito sull’ondata di privatizzazioni operata negli anni Novanta, non ci sia un ripensamento chiaro sul ruolo assunto dalle banche, ormai autentici supermercati di “scommesse” speculative. Chissà se qualcuno ricorda ancora gli “illuminati” banchieri di scuola McKinsey, che votavano tutti a sinistra. Chissà perché si parla di investimenti pubblici con un basso tono di voce e quasi si dimenticano i libri di John Maynard Keynes, l’economista che meglio di tutti spiegò le contraddizioni del mercato e corresse il capitalismo. 

Ma se lo chiedono a sinistra, perché i cosiddetti “populisti”, quelli che votano “con la pancia”, sostengono che la “sinistra ha tradito”? C’è qualcuno a sinistra che si interroga seriamente sui danni di una globalizzazione senza regole e sulle spaventose differenze sociali che si sono create nel mondo? Ieri Renzi, nel discorso di apertura, sosteneva che i tempi di suo padre e di suo nonno non erano migliori di quelli che viviamo oggi. Dovrebbe andare a spiegarlo a chi diserta le urne, a chi vive nelle periferie delle grandi città, alle famiglie del ceto medio impoverito. Non basta citare una sola frase del grande Franklin Delano Roosevelt.

Il problema, in realtà, non è la scissione nel Pd di alcuni vecchi notabili che, in quanto a confusione, hanno fatto la loro parte. Il problema è che il Pd di Matteo Renzi è solo l’ultima espressione italiana di una storia confusa e contraddittoria, dove si sono mescolate “sparate” di sinistra e “vocazioni” centriste o addirittura di destra, di sostanziali operazioni di potere. E quello che avviene in Italia è in fondo un aspetto più contorto delle sofferenze di tutta la sinistra mondiale.

Può darsi che oggi, con la sua relazione al Lingotto e con i suoi passi successivi, Renzi smentisca tutti e delinei una sinistra moderna. Ma dalla perorazione di ieri, dai discorsi di questi giorni, dalle contrapposizioni continue (anche se si negano), dai silenzi sui grandi temi di fondo di questa epoca, sembra che anche questo anniversario, quello del Pd, abbia tutta l’aria di un “festival di neologismi”, incomprensibili al popolo, non ai “populisti”, e che ci si infili ancora di più nella storia di un’incredibile confusione che non ha nulla a che fare con la politica, con la visione della politica, con la comprensione della realtà che cambia e con la capacità di risolvere i problemi. 

L’unica speranza è che questa perenne e ormai consolidata confusione, non diventi un polverone dove non si capisce letteralmente più nulla e si alzi il più pericoloso dei “venti di una nuova epoca”: il vento di una destra schematica e sbrigativa. Il rischio è che Renzi diventi l’ultimo erede di una sinistra che ha perso tutti gli appuntamenti con la storia.