A volte il tempo fugge, altre no. Matteo Renzi ricade senza dubbio nel secondo caso: dal palco del Lingotto dice che il paese è rimasto fermo al 4 dicembre, ma in realtà alla data del referendum è rimasto fermo lui. Poche, pochissime le novità venute dal luogo dove cominciò la corsa di Veltroni, esattamente dieci anni fa.
Poche le note positive dalla kermesse torinese, e fra esse spiccano gli applausi scroscianti per Emma Bonino, che segna una sintonia nuova sul fronte dei diritti civili. Poi un Martina assurto a vice-Renzi anche nell’applausometro, e un Padoan sempre più determinato a giocare in chiave politica il suo mandato di ministro, anche in prospettiva europea.
Quel che è mancato in maniera piuttosto evidente è il guizzo che riaccendesse l’entusiasmo, il segnale di apertura di un nuovo ciclo. Certo, è apparso evidente lo sforzo di passare dall’io al noi, anche se con esiti altalenanti. Il programma, invece, è tutto da scrivere, a partire dai gruppi di lavoro stile Leopolda.
E’ evidente che la sconfitta referendaria abbia lasciato in Renzi ferite profonde, che lo stesso ex premier non ha tentato di nascondere. Ferite che si sono plasticamente trasformate in una scissione che fa più male di quanto non sia grande la dimensione della scissione stessa.
Indietro non si torna, scandisce Martina dal palco. Ma il come, ancora non è chiaro. Anzi, serpeggia il timore che la spaccatura sia solo all’inizio, che Orlando e Emiliano possano raccogliere più voti del previsto persino in primarie orfane degli scissionisti. E’ toccato al ministro della Cultura lanciare il monito politicamente più rilevante, ricordare ai due sfidanti per la segreteria del Pd che bisogna confrontarsi in una logica di squadra. “Si sceglie solo il capitano”, ha ricordato a tutti.
Ma Franceschini, il più influente sostenitore di Renzi, ha soprattutto delineato le alleanze prossime venture. Piaccia non piaccia, lo scontro non è più fra destra e sinistra, ma fra responsabili e antipolitica. Corollario è che i numeri spingono i democratici a dialogare con i moderati del centrodestra, ammesso che ne emerga un’aggregazione sufficientemente rappresentativa. Tradotto: occhio che nella prossima legislatura l’accordo con Berlusconi è — ad oggi — più che probabile. Sempre a patto che Forza Italia trovi il modo di sganciarsi dall’ingombrante ombra di Matteo Salvini.
Non si tratterà di sicuro di una prospettiva che possa piacere agli scissionisti di D’Alema, Bersani e Speranza, e neppure al “Campo progressista” di Pisapia. E ancor meno a Sinistra Italiana di Fratoianni. Si sa però che Franceschini ha canali privilegiati di comunicazione con il Quirinale, ed è difficile scacciare il pensiero che sia stato influenzato dal timore che nella prossima legislatura sia complicato trovare i numeri per formare un governo quale che sia.
Del resto, neppure si sa, in questo momento, con quali regole si svolgerà la prossima competizione elettorale. Il dibattito sulla legge elettorale in commissione alla Camera non è praticamente ancora cominciato. E questo fa crescere le preoccupazioni dei collaboratori del presidente Mattarella, dal momento che l’invito ad armonizzare le leggi elettorali uscite dalle sentenze della Corte costituzionale è rimasto lettera morta.
Forse quel “siamo una squadra” di Franceschini può essere letto anche come un incitamento a scegliere una strada sulla legge elettorale, strada che non può essere quella del ritorno al “Mattarellum” propugnata da Renzi. Una proposta che non ha i numeri in Parlamento.
Quel che è certo è che dalle parti del Quirinale si vede come la peste l’ipotesi che tutto possa rimanere fermo sino al 30 aprile, data delle primarie democratiche. Dal 4 dicembre sono passati ormai quasi cento giorni, troppi perché se ne possano aggiungere altri cinquanta. Ciò che sinora Mattarella non ha intenzione di fare è un pubblico intervento per richiamare i partiti (Pd in testa, ma non solo, ovviamente) a darsi una mossa. Il tentativo di tirare il Capo dello Stato per la giacca è abbastanza evidente e viene attribuito ad ambienti che qualche tempo fa si sarebbero definiti veltroniani, ma il presidente rimane fermo nella sua convinzione che il parlamento sia sovrano nelle sue scelte, e il suo intervento potrebbe essere frainteso. E giudicato come il sostegno a una soluzione, piuttosto che a un’altra.
Certo, se lo stallo dovesse perdurare ancora questa valutazione potrebbe essere modificata per necessità. Il problema è identificare uno strumento per il richiamo. E su questo il dibattito è aperto. Le possibilità sono numerose, e si va dalla semplice dichiarazione, sino all’arma atomica di un messaggio alle Camere, strumento previsto dalla Costituzione, ma che Napolitano utilizzò una sola volta in nove anni. In quel caso il parlamento sarebbe sostanzialmente obbligato al confronto. Fantapolitica? Forse. Di sicuro solo dal Pd può venire il segnale per uscire dalla palude.