Il punto di partenza più adeguato per giudicare il Lingotto 2017 è il risultato politico del referendum del 4 dicembre. Si trattava di capire se — dopo aver gestito la “pratica” della scissione sostanzialmente da lui voluta, perché non si può chiedere in un partito, a chi ti si oppone, di stare sempre e comunque dietro la lavagna con i ceci sotto le ginocchia, e aver deciso con l’accelerazione del congresso che rivincita doveva essere, commissariando fondamentalmente partito e governo nelle more della propria rilegittimazione politica, necessitata dalla sconfitta referendaria — Renzi avesse capito quel che era, e gli era, successo.



Dopo averlo ascoltato, non c’è dubbio. Non ha capito. O ha fatto finta di non capire. E’ difficile dire cosa sia peggio: per lui, per il Pd, e purtroppo per il Paese, constatato il ruolo obbligato di sostegno cui il Partito democratico nel bene e nel male è chiamato a ricoprire nell’attuale quadro politico. E quel che non ha capito è che il Paese il 4 dicembre non ha bocciato solo una modifica costituzionale, ma ha bocciato una “visione” di cui la riforma costituzionale, insieme all’Italicum, era un pezzo, e non da poco. E cioè l’ascrizione della democrazia del Paese a un sistema politico ipermaggioritario; per certi aspetti un presidenzialismo non dichiarato e non temperato istituzionalmente, con una politica “decidente” e ricondotta al centro, a Palazzo Chigi, con una fondamentale depressione delle funzioni di rappresentanza sia a livello centrale che periferico, in un modello del “sindaco d’Italia” che avrebbe tratto il Paese dal guado del ristagno economico e sociale. 



E’ accaduto che dopo mille giorni, non cento, il Paese in quel guado si è sentito ancora impantanato e per di più deluso dalle promesse mancate, e che la “via nuova” sul piano politico, morale e civile dopo tanti annunci non si era vista. L’inchiesta Consip, per altro, al Paese del 4 dicembre, disincantato quanto alla promessa rottamazione di sistema e non di avversari politici, interni ed esterni, sta dando forti ragioni che nel voto aveva capito quanto bastava. Per giunta un Paese tutto sommato dei mille comuni, di un’identità e di un’autonomia civica diffusa, poco incline a consegnarsi neanche a uno Stato per tutti — in fondo la grande invenzione interclassista e interregionale, senza fare le regioni, della grande stagione democristiana — ma al sindaco di Firenze, ad un primus inter pares con la netta tendenza, da antiche guerre comunali, a far fuori uno dopo l’altro tutti i “pari”.



In questo quadro ti saresti aspettato che la pur errata strategia di rivincita sarebbe stata più accorta, e il canovaccio della narrazione renziana al Lingotto 2017 almeno tatticamente diverso. E invece poco più che niente. L’uomo solo al comando come necessità per il Paese è stato fondamentalmente ripresentato nella tesi congressuale di fondo — paradossale in un quadro proporzionale nel medio periodo ineludibile stando ai sondaggi — che il segretario uscito dalle primarie del Pd dovrà essere anche il candidato premier, a dispetto dei santi e di ogni più opportuna verifica coalizionale (che è il motivo della richiesta dei concorrenti Orlando e Emiliano, e dei fuorisciti di Art. 1, di separare i ruoli). 

Concede un po’ di “collegialità”, cui tra i suoi ascoltatori non crede nessuno, perché in tre anni non si è vista nelle direzioni del partito e i “caminetti”, che ne sono un’immagine mediatica, per dichiarazione stessa del leader continueranno a non potersi tenere. Le decisioni vanno prese al freddo della solitudine del leader e nel calore del suo rapporto diretto con il “suo” popolo, delle primarie e del Paese.

A discendere da questo assunto, più che autocritica, abbiamo ascoltato una critica feroce degli avversari interni che se ne sono andati dopo aver boicottato per anni l’idillio presunto con il Paese del 40 per cento delle europee, e di tutti i governi precedenti almeno da quando Renzi è entrato adolescente in politica, con stilettate addirittura feroci per Monti, di cui tutto si potrà dire meno che non ci abbia salvato dalla bancarotta. Insomma, dopo le europee con il Paese c’è stata solo una comunicazione disturbata da altri, cui addebitare le “incomprensioni”, dopo le europee, delle comunali, delle regionali, del referendum. E che il problema adesso per realizzare una “visione” politica e del Paese, sostanzialmente inalterata sulla falsariga delle Leopolde, per il Pd e per il suo leader è solo andarsi a riprendere nelle urne delle politiche il 40 per cento dei consensi fissato disgraziatamente dalla Consulta perché abbia un minimo di senso democratico l’effetto ipermaggioritario che cercava l’Italicum. 

Quello che Renzi non ha capito è che questo è il problema suo e del ceto politico che a lui si è affidato. Fino a quando lo farà, perché inopinatamente Orlando da competitore di comodo ha assunto i panni dell’alternativa, l’imprevisto Emiliano gli è rimasto in casa, e Franceschini aspetta alla finestra. Ma non è l’interesse degli italiani, molto più sensibili alla necessità dello spostamento di un 4 per cento di Pil sui ceti e le famiglie più in difficoltà del Paese, avendo visto che una buona quota di quel 4 per cento il governo Renzi l’ha usata non per loro, ma per le “banche”, cioè, tradotto, per riparare i bilanci delle grandi famiglie del capitalismo italiano, di cui non ha fatto sapere nemmeno i nomi. 

Insomma al Lingotto Renzi non sta parlando per tenere in campo in Paese, e neanche il Pd. Sta parlando per tenere in campo se stesso e i suoi. Il che è un peccato anche per il suo futuro politico di leader, che tanto aveva promesso. In un’atmosfera di nostalgia, con il fondale anche naif di Bob (Kennedy), per una scuola di politica che in nove mesi, il tempo di un parto di un bebé, dovrebbe sfornare duecento (trecento sarebbero stati troppo “giovani e forti”) nuovi giovani dirigenti politici per il nuovo Pd, una moda questa delle scuole di politica che della politica è sintomo della crisi; in un’atmosfera di nostalgia, al Lingotto del decennale si ha l’amara sensazione che in un Paese che ha visto diversi leader perdere il biglietto della lotteria, Renzi lo abbia avuto tra le mani per tre anni e se non l’ha già stracciato lo stia stracciando.