Dal Lingotto Matteo Renzi ha ribadito “energia e grinta” e si è confermato come il più competitivo leader del Pd. Ha cercato di arginare la scissione valorizzando quel che resta della “ditta” con Fassino, Chiamparino e Martina, rivalutato la parola “compagni” e il partito secondo Napolitano come “comunità”. Grande comunicatore, Renzi non è però incline a un’analisi autocritica. “Smettiamola con questa idea metafisica di un nuovo Renzi” aveva detto a La Stampa (chissà che cosa Renzi intende per “metafisica”?). Quando l’ex premier parla di “ferite” e “cicatrici” non è certo per riconoscere colpe o errori propri, ma per denunciare torti e tradimenti subiti.
Assordante nella sua “narrazione” è soprattutto l’assenza di qualsiasi riferimento a Sergio Mattarella, mentre era ormai scontata la cancellazione di Federica Mogherini e anche dell’Expo di Beppe Sala. L’Alto commissario della politica estera della Ue è da tempo estromessa dalle manifestazioni del Pd come se fosse colpa sua se Renzi è finito completamente isolato a Bruxelles e il sindaco di Milano ha fatto dichiarazioni critiche e non si è ancora schierato nelle primarie. Anche Mario Draghi è inesistente per Renzi: si deve parlare solo degli 80 euro e mai dell’azione della Bce nella crisi economica. Diverso e più clamoroso invece il non celato rancore verso il Quirinale per le mancate elezioni anticipate che Renzi voleva gestire con il governo dimissionario senza lasciare Palazzo Chigi.
Il Matteo Renzi di Torino sembra cioè vittima della “Sindrome di Palazzo Chigi”. Nulla di strano. Tanti ex premier prima di lui — da Fanfani a Berlusconi, da Moro a Craxi — persa la presidenza del Consiglio ne hanno fatto una “malattia” puntando tutto a riprenderla. Ma il caso di Renzi è particolare. Per Renzi dopo la sconfitta del 4 dicembre gli avversari “la devono pagare” ovvero nulla deve più accadere in Italia, tutto deve rimanere fermo in attesa del suo ritorno.
Il fatto che Sergio Mattarella non gli abbia concesso immediate elezioni rappresenta un “vulnus” da punire. Per Renzi da qui alle elezioni bisogna cioè dimostrare che il Capo dello Stato ha avuto torto e quindi per prima cosa occorre sbarrare la strada alla richiesta del Quirinale di una nuova legge elettorale (salvo un ritocco dello sbarramento nel proporzionale scaturito dalla Consulta).
In effetti non si registra una particolare animazione nelle Camere sul tema. Francesco Crispi, esponente della sinistra postrisorgimentale, diceva: “La legge elettorale è il testamento dell’Assemblea parlamentare”. Di certo Renzi e i “suoi” oratori hanno dedicato scarsa attenzione a quello che dovrebbe essere una priorità nell’iniziativa del Pd. L’ex premier si limita a ventilare il ritorno al Mattarellum con non celato scetticismo mentre si muove soprattutto per far emergere inutilità e danno del mancato scioglimento anticipato delle Camere. Tutti i suoi discorsi sulla legge elettorale danno per scontato di votare con le sentenze della Consulta e l’unica cosa che a Renzi interessa ripetere è che anche con il proporzionale sarà sempre lui il prossimo premier: chi arriva primo è premier come in Germania e in Spagna.
Questo scenario di un’Italia immobile in attesa del Grande Ritorno deve però fare i conti con una scena nazionale e internazionale in fermento, enigmatica e anche pericolosa. Non è detto che in Italia tutti rimangano con le mani in mano in attesa del Renzi 2. Quel che manca a Renzi è infatti non tanto l’ideazione del futuro quanto un’attenta analisi del presente. Con il proporzionale è possibile il “fronte popolare” del cosiddetto populismo. Prima Matteo Salvini e ora Luigi Di Maio cominciano a parlare di alleanze e già nel segreto dell’urna da Roma a Torino neofascisti e leghisti hanno votato per i candidati del M5s (che a Strasburgo è alleato con l’estrema destra di Farage e al tempo stesso vola a Caracas per omaggiare l’estrema sinistra di Hugo Chavez).
Renzi e i suoi mettono insieme — un po’ alla Veltroni — Antonio Gramsci e Bob Kennedy, ma Grillo, Meloni e Salvini già ora sfiorano la maggioranza assoluta.
Il rischio che sta correndo Renzi, se insiste su un’Italia che deve rimanere ferma in lutto dopo il 4 dicembre con un Gentiloni di “basso profilo”, è quello di finire per essere percepito come il “dominus” dell’immobilismo lasciando in campo solo le priorità dell'”agenda Grillo”.
Soprattutto mancando un’analisi autocritica della campagna referendaria, Renzi non mette a fuoco l’errore fatto e cioè aver inseguito Grillo e Salvini nell’antipolitica mettendo al centro i costi del Senato e l’abolizione dei parlamentari. In occasione del referendum il qualunquismo sembrava il pensiero unico nazionale.
E’ auspicabile che Matteo Renzi lasci perdere la Metafisica, non congeli il governo del Paese e ristabilisca un rapporto positivo — di rispetto e di ascolto — con il Quirinale. La riedizione di una conflittualità del tipo Berlusconi-Napolitano potrebbe essere devastante.