La politica non si fa con i sentimenti. Ben lo sa Matteo Renzi protagonista del machiavellismo de’ noantri che ha caratterizzato questa stagione in vernacolo della politica italiana. Ma ancor meno si fa con i risentimenti. L’accusa mossa dall’ex presidente del Consiglio ai vari D’Alema e Bersani, Letta e Berlusconi si rovescia contro di lui, che appare oggi prigioniero del peggiore degli incubi: essere rifiutato dalla sua creatura prediletta. Sergio Mattarella infatti si è mostrato meno docile del previsto ai diktat renziani e brilla oggi di luce propria, convinto com’è che il partito non vale la Repubblica e men che meno la vale il caro leader.
Renzi è furibondo: “Dov’è Faraone? Dove sono le carte su Castellammare del Golfo che mi aveva promesso?”. E intanto mastica amaro perché ogni giorno che passa diventa più improbabile la strategia della rottamazione, che appare sempre più una trovata pubblicitaria per ingenui che non una credibile alternativa politica. Già, la rottamazione. A fronteggiarla oggi ci sono appunto molti grandi vecchi della politica italiana, da Napolitano a De Benedetti, da Scalfari a Bazoli. Gli stessi che avevano puntato molto sul ducetto di Rignano sull’Arno e che ora, implacabili, ne studiano i contorcimenti prima di affondare il colpo.
I saggi della terza repubblica hanno già emesso la loro sentenza e nella bailamme di questi giorni che precedono il congresso del Pd hanno individuato con certezza lo scenario del dopo Renzi. Un tempo della storia scevro di sentimenti, come prima, ma se possibile alieno dai risentimenti tipici dei dilettanti allo sbaraglio capaci di nuocere al destino dei popoli pur di alimentare il proprio ego. Nel patetico tentativo del Lingotto di passare dall’io al noi ciò che è apparso chiaro a tutti è che quel “noi” altro non era che un inverosimile plurale maiestatis.
Per questo all’arrembante politica del regolamento dei conti immediato tanto desiderata da Renzi, i vecchi oppongono la politica del rimuginare continuo, senza accelerazioni e senza strappi. Tempo al tempo. E suona come una beffa la decisione del governo Gentiloni di convocare prima i comizi elettorali del tanto temuto referendum sui voucher e poi dare via libera con la fiducia al testo sul processo penale che allunga a dismisura i tempi della prescrizione. Quasi una risposta al renziano “cari giudici, arrivate subito a sentenza…”. Certo, ma fra trent’anni. Anche su Consip. E intanto la politica si guarda intorno. Chissà che che tra i tanti numeri del gioco del Lotti non venga estratto quello capace di riportare ordine nel Partito democratico. Magari il 2018. Quando Paolo Gentiloni potrebbe scoprirsi più leader di quello che crede.