Due particolari danno la misura del dramma che si è consumato ieri in Senato, con il voto di (mancata) sfiducia a Luca Lotti, ministro dello Sport (con delega all’editoria) indagato nell’inchiesta sugli appalti Consip che coinvolge anche Tiziano Renzi, papà di Matteo. Il primo dettaglio è coreografico: un solo applauso ha accompagnato il discorso di autodifesa del ministro. Uno solo, il minimo sindacale, a testimoniare il profondo imbarazzo del Pd.
Il secondo è più di sostanza. Lotti nega di avere messo in giro voci sull’avvicinarsi dell’inchiesta, smentisce di aver avvertito chicchessia, sostiene che chi lo dice è un calunniatore. La calunnia è un reato penale, il ministro potrebbe a sua volta denunciare chi lo accusa ingiustamente per fugare i residui sospetti. Ma non lo fa. L’autodifesa è debole, inversamente proporzionale allo smarrimento della maggioranza. Che vota compatta ma poco convinta, così come appare di circostanza la solidarietà del governo schierato quasi al completo in Parlamento a fare da scudo al povero Lotti. Brillava un’assente: Maria Elena Boschi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Meglio evitare di offrire il fianco ad altre contestazioni. E l’imbarazzo aumenta ancora.
I 5 Stelle non sono riusciti, con la loro mozione, a disarcionare il ministro. Ma hanno offerto al Paese lo spaccato di un sistema di potere che voleva rottamare ed è stato rottamato. Renzi, Lotti, la Boschi, il resto del Giglio magico magari manterranno la segreteria del Pd, tuttavia l’immagine di ieri è quella di una leadership sotto processo, sotto scacco, abbarbicata al potere. Il processo al renzismo si è aperto ufficialmente ieri, molto prima del congresso Pd, che sarebbe la sede più appropriata.
Non è migliore lo spettacolo offerto dalla “nuova” sinistra, quella dei fuoriusciti dal Pd. Da segretario, Pier Luigi Bersani si schierò dalla parte di Vasco Errani condannato (e successivamente assolto) per il caso Terremerse: l’allora governatore dell’Emilia-Romagna si dimise contro la volontà garantista del partito, rimasto fedele alla linea che “un avviso di garanzia è solo un atto a tutela di un indagato”. Ora invece che l’indagato si chiama Lotti, e che è un bersaglio mobile, dovrebbe dare le dimissioni, o come minimo restituire le deleghe. Dovrebbe insomma prendere esempio proprio dal comportamento di Errani, a suo tempo criticato. Del resto, Renzi aveva scaricato il ministro Maurizio Lupi che non aveva nemmeno un avviso di garanzia.
Lotti evoca la gogna mediatica, i suoi alleati puntano il dito contro i giornali, usando uno dei principali argomenti che a suo tempo sbandierò Silvio Berlusconi quando fu cacciato dal Senato in virtù della Legge Severino. E in nome del medesimo garantismo il capogruppo azzurro, Paolo Romani, esce con i suoi dall’aula al momento del voto sulla mozione. Un mondo alla rovescia.
Alla fine i voti a favore di Lotti sono 161 su 315 senatori e 215 votanti. Ostacolo aggirato ma sputtanamento assicurato. Chissà se è proprio meglio così.