Ieri, con 156 sì, 121 no e un astenuto il Senato ha approvato con voto di fiducia la riforma della giustizia penale voluta dal Guardasigilli Orlando (ora il pacchetto torna alla Camera).

Una prima riflessione s’impone: su una materia così delicata, che tanto ha fatto discutere negli ultimi decenni, ossia su una riforma piuttosto corposa sia del codice penale sia di quello di procedura, insistere col metodo del voto di fiducia non garantisce quel livello di condivisione necessario su tematiche sensibili come questa; ciò legittima il dubbio che la fretta di far passare la legge possa essere in parte dovuta all’iniziata campagna elettorale del ministro proponente, sia in seno al Pd che in vista delle future elezioni politiche.  



Con riguardo ai contenuti del disegno di legge, in generale, si può dire che il giudizio nel suo complesso non sia negativo: come in ogni riforma ci sono criticità e aspetti positivi e, pur nella difficoltà di sintetizzare per punti una proposta che tocca molti istituti, si possono tuttavia mettere in evidenza le principali novità e i criteri sottostanti.



Per alcuni reati contro il patrimonio sono stati previsti significativi aumenti di pena nel minimo (il furto in abitazione passa da 1-6 anni a 3-6 anni; la rapina da 3-10 anni a 4-10 anni, il voto di scambio politico mafioso da 4-10 anni a 6-12 anni, ecc.): aumentare le pene per reati che la collettività percepisce come minacciosi della corretta convivenza sociale paga in termini politici, ma la vera riforma è quella di rendere certa la condanna in tempi rapidi ed effettiva l’esecuzione della pena irrogata e, per esperienza, il mero aumento delle pene, oltre a creare potenziali ingiustizie, spesso non realizza questi obiettivi.



Un’importante novità riguarda le intercettazioni telefoniche e il tentativo di arginare un fenomeno di divulgazione delle stesse che, da molti anni, sta creando gravi problemi di lesione dell’immagine delle persone (sia indagate, sia soprattutto estranee alle indagini) e di processi sommari attuati attraverso i mezzi di informazione.

Viene data una delega al Governo affinché nel tempo limite di un anno adotti i decreti legislativi indirizzati alla tutela della riservatezza delle conversazioni tra soggetti occasionalmente coinvolti nel procedimento, dei difensori con i loro assistiti e di tutte le comunicazioni non rilevanti ai fini della responsabilità penale.

E’ prevista, inoltre, una nuova fattispecie di reato, punita fino a 4 anni di reclusione, per coloro che diffondono, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, carpite fraudolentemente.

Desta una certa perplessità il fatto che non siano previste responsabilità per i giornalisti, laddove il materiale pubblicato violi le disposizioni che saranno definite dai decreti attuativi del Governo: questa scelta del Legislatore appare troppo sbilanciata sulla tutela del diritto di cronaca, rispetto alla tutela degli altri diritti in gioco, anch’essi costituzionalmente garantiti (il diritto all’immagine, il diritto di difesa, la presunzione di innocenza, eccetera). 

Vi sono, infine, due importanti novità di natura processuale, che certamente vanno nella direzione di snellire e accelerare lo svolgimento del processo.

La prima riguarda il termine di 3 mesi (prorogabili eccezionalmente di altri 3) imposto al pubblico ministero, dopo la chiusura delle indagini preliminari, per richiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale (ossia chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato): l’assenza di tale disposizione è stata una delle cause principali della lentezza dei processi, in quanto migliaia di indagini concluse giacevano per anni negli Uffici delle Procure, senza una decisione in un senso o nell’altro. Colpisce l’insorgere dell’Anm circa questa introduzione, che la dice lunga sull’arroccamento, con argomentazioni strumentali, di chi vuole mantenere un potere oltre misura in capo all’Autorità Inquirente. 

La seconda riguarda la reintroduzione del cosiddetto patteggiamento in appello, previsto dal nuovo art. 599 bis c.p.p., che prevede la possibilità, previa rinuncia totale o parziale ai motivi d’impugnazione, di concordare con la Procura la pena da proporre alla Corte d’Appello, che decide in camera di consiglio se accogliere l’accordo delle parti. Introdurre nuovamente questa possibilità, che era stata inspiegabilmente abolita, significa decongestionare in modo significativo il carico di lavoro delle Corti d’Appello e va quindi nel senso di una razionalizzazione del sistema e di una maggiore celerità della conclusione del processo.

Ciò che, invece, non convince sono le novità in tema di prescrizione: aumentare come è previsto i termini della prescrizione, prevedendo la sospensione della stessa fra i vari gradi di giudizio, pare in contraddizione con i citati rimedi per accelerare lo svolgimento dei processi. Non vi è chi non comprenda che allungare a dismisura i termini prescrizionali induce chi amministra giustizia a non fare i conti con il tempo che passa, a tutto discapito di chi legittimamente pretende (i cittadini) che sia fatta giustizia nel minor tempo possibile.

Molte altre sono le novità introdotte, che riguardano aspetti sostanziali e procedurali, le cui conseguenze possono essere colte più dagli addetti ai lavori che dal cittadino comune.

Conclusivamente si può affermare che, nonostante alcune contraddizioni, la maggior parte delle novità previste da questo disegno di riforma vanno nel senso giusto, ossia di una maggiore razionalizzazione del sistema che, oltre alla salvaguardia dei diritti della difesa, deve garantire un processo rapido ed efficace.

Molto di più si può ancora fare e pensare: ma questo è un buon inizio. Resta il rammarico per il metodo, come sottolineavo all’inizio: la Giustizia è bene primario comune, più vi è condivisione sulle riforme e più queste saranno illuminate e contribuiranno a rasserenare un clima che, da troppo tempo, sul fronte giudiziario è avvelenato.