Stavo ascoltando con attenzione il discorso di Paolo Gentiloni davanti all’europarlamento di Strasburgo. Un discorso rassicurante, così rassicurante da sembrare convincente anche quando sosteneva l’insostenibile, e cioè che l’Europa a due velocità non dividerà i 27 fra serie A e serie B. L’ho trovato così rassicurante che gli occhi hanno cominciato a chiudersi….
Davanti a me è apparso il 15 marzo 2018… Ero davanti alla stessa tv, in quella stessa stanza, e vedevo uscire dallo studio alla Vetrata il nuovo presidente del Consiglio incaricato, Luigi di Maio, che spiegava nelle sue prime dichiarazioni ai giornalisti come avrebbe cercato di formare un governo monocolore del Movimento 5 Stelle.
Raggiante, assicurava che si trattava di un grande momento per il paese, di un punto di svolta, di un’autentica rivoluzione. Assicurava soprattutto che era certo di trovare in parlamento i voti che gli servivano per garantire il varo del governo. La sua spiegazione era torrenziale: raccontava con dovizia di particolari come ormai da settimane, dal voto del 18 febbraio, erano in corso abboccamenti riservati e che era in vista un accordo per l’appoggio esterno al primo gabinetto pentastellato della storia della Repubblica da parte dei parlamentari di Lega e di Fratelli d’Italia.
Certo, c’erano ancora parecchio lavoro da fare, perché un governo di minoranza non può che nascere sulla base di un minuzioso patto programmatico. Ma l’intesa di massima — assicurava Luigino da Napoli — c’era già.
Nei colloqui riservati erano emerse evidenti convergenze sia in materia di Europa, sia sulla gestione dell’immigrazione. Il governo a 5 Stelle avrebbe cominciato chiedendo all’Unione di rinegoziare il bilancio per ridurre ad un tempo il contributo italiano e le sovvenzioni ai paesi della seconda cerchia, quelli riottosi a rispettare gli impegni in tema di ricollocazione dei migranti. L’impegno era quello di sbattere i pugni sul tavolo, denunciando il trattato di Dublino che mette il peso degli arrivi quasi esclusivamente sulle spalle dei paesi di primo ingresso.
Quasi contemporaneamente il computer sul mio tavolo cominciò a squittire in continuazione, per via dei “bip” emessi dalle agenzie urgenti: a Di Maio facevano eco, in una conferenza stampa congiunta Matteo Salvini e Giorgia Meloni, da cui veniva anche la notizia che nei patti di governo sarebbe stato compreso un referendum consultivo sull’Europa e sull’euro, da istituire per legge, copiando da quello del 1989. Solo che allora era servito a mostrare l’euro-entusiasmo degli italiani. Oggi l’effetto sperato dei proponenti era l’esatto opposto.
Fra il Quirinale e Montecitorio le voci si rincorrevano: nel programma dei cento giorni sarebbero stati compresi l’abolizione del jobs act e quella totale del vitalizio dei parlamentari, il reddito di cittadinanza e un giro di vite sulla sicurezza delle città.
Quando Di Maio se ne andò, fu il Capo dello Stato a entrare in scena. Era rassegnato Mattarella, sul viso gli si leggeva in faccia chiaro lo sforzo fatto per accettare una soluzione che non era affatto quella che aveva sperato.
“Non c’era alternativa a questo incarico”, furono le sue prime parole. Come se parlasse più a se stesso, per convincersi, che agli italiani, argomentò con voce lenta che in Parlamento si era venuta a creare una situazione di sostanziale ingovernabilità. Non lo diceva chiaramente Mattarella, ma si capiva che addossava per intero la responsabilità ai partiti, ai Renzi, ai Bersani, ai Berlusconi, incapaci per un anno intero di sciogliere il nodo della riforma della legge elettorale. Si era finiti per andare al voto con il sistema uscito dalle due sentenze della Corte Costituzionale, sostanzialmente proporzionale, salvo pochi correttivi. Risultato? Un tripolarismo alla spagnola, ingovernabile, con l’aggravante che uno dei tre poli, quello di centrodestra, si è squagliato durante la campagna elettorale, con Berlusconi pronto a gettarsi nelle braccia del Pd pur di sbarrare la strada all’arrivo dei grillini al governo, mentre Salvini e Meloni mai avrebbero accettato di fare da stampella a Renzi. Del resto la coalizione di centrodestra era solo sulla carta, ciascuno aveva corso in proprio, come il proporzionale spinge a fare.
Impietosi i numeri, spiegava Mattarella, con la grande coalizione Renzi-Berlusconi ben lontana dalla maggioranza assoluta. Unico scenario in grado di dare un governo al paese l’ammucchiata “no euro”. Una maggioranza traballante, meno di 320 voti, ma senza alternative. “Non potevo che prenderne atto”, ripeté più volte il capo dello Stato, non nascondendo preoccupazione per la stabilità e gli impegni internazionali.
Proprio mentre mi sforzavo di immaginare il nome dei ministri possibili, il telefono si mise a squillare, riportandomi alla realtà. Nel televisore davanti a me c’era ancora Gentiloni che cantilenava davanti agli europarlamentari. Era solo un sogno, allora. Ma assomigliava dannatamente alla realtà.