Il cuore del problema lo ha centrato Arturo Parisi: sulla legge elettorale si deciderà della forma e del futuro della nostra democrazia. La partita, però, è ancora in fase preliminare, nonostante siano passati ormai 105 giorni dal referendum costituzionale e 53 dalla sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato l’Italicum.  



L’impressione prevalente è che lo stallo sia destinato a continuare sino alle primarie democratiche, perché ad oggi il Pd non è in grado di prendere posizione, nonostante i reiterati solleciti venuti dal presidente Mattarella a armonizzare il prima possibile i due sistemi elettorali per Camera e Senato, usciti dalle due pronunce della Consulta. Non è in grado, ma più probabilmente non vuole.



E’ stato Andrea Orlando, uno dei due sfidanti di Renzi per la segreteria, a mettere in discussione questo tempo sospeso. Ha chiesto di prendere atto che la posizione ufficiale del Pd, cioè il ritorno al Mattarellum, è isolata, e di conseguenza non ha alcuna speranza di passare. E altri quaranta giorni di surplace non sono destinati certo a cambiare le cose. E’ necessaria — secondo Orlando — una svolta subito, per evitare i due rischi insiti in uno stallo che conduca a un proporzionale senza alcun correttivo: o le larghe intese, o nuove elezioni dopo sei mesi in caso di ingovernabilità alla spagnola. Due scenari che il ministro della Giustizia dice di volere evitare a tutti i costi.



Con queste dichiarazioni Orlando si pone comunque in una posizione di contestazione di Renzi molto netta e molto politica. E probabilmente c’è molto di più che il semplice tentativo di tenere agganciati al corpaccione democratico quel vasto mondo di ex Ds che non se l’è sentita di seguire Bersani, D’Alema e Speranza nell’uscita dalla casa madre verso lidi ignoti. C’è un’autentica contestazione di una deriva che proprio alle larghe intese (con Berlusconi) sembra portare, sempre ammesso che dopo le elezioni non siano i 5 Stelle a essere nella posizione di dare le carte, magari come partito di maggioranza relativa. 

Il punto nodale è che tipo di proporzionale sarà quello con cui si andrà al voto. Se nulla cambierà rispetto a oggi, il premio di coalizione potrà scattare solo al 40 per cento e verrà assegnato alla lista più votata. Si tratta di un livello che realisticamente nessuno può pensare oggi di raggiungere. Di conseguenza, non ci sarà alcun interesse a creare schieramenti prima del voto. 

In questo scenario cambiano le cose soprattutto per il centrodestra, dove ciascuno sarà tentato di correre da solo, tenendosi le mani libere per dopo. Non ci sarebbe, insomma, alcun interesse a formare coalizioni. A Renzi l’idea di un Berlusconi più libero di fargli da sponda potrebbe non dispiacere affatto. Ma si tratterebbe proprio di quelle larghe intese che un pezzo di Pd (non solo Orlando, ma anche Emiliano) eviterebbe molto volentieri. 

Peraltro le simulazioni sulla possibile ripartizione di seggi del prossimo Parlamento dimostrano che i voti di Pd e Forza Italia potrebbero non bastare a garantire la maggioranza assoluta, nemmeno se sommati a quelli dei fratelli-coltelli della sinistra e ai centristi di Alfano, ammesso che riescano a superare la soglia per entrare nelle future Camere. La spada di Damocle di un’intesa 5 Stelle-Lega-Fratelli d’Italia, di cui si continua a parlare, è lì a dimostrarlo.

L’attacco di Orlando si rivela dunque un tentativo di spostare a sinistra l’asse del Pd, anche perché parallelo alle critiche alla frettolosa abolizione dei voucher lavoro, senza alcun strumento sostitutivo. La rielezione di Renzi non appare in discussione, ma il pungolo di Orlando potrebbe rivelarsi più fastidioso del previsto, se sottovalutato. 

Come si è visto con le nomine delle società pubbliche, Renzi continua a muoversi come se fosse il segretario del Pd. Una sicurezza forse esageratamente ostentata. Ciò che rimane oscuro è lo scenario per il dopo che l’ex premier-segretario ha in mente. E la partita sulla legge elettorale ne costituisce il caposaldo, perché sono le regole del gioco che definiranno le strategia per vincere, e non il contrario.

In questo campo, però, gli errori di valutazione sono la regola, e sempre in epoca repubblicana. È successo con la cosiddetta legge truffa del 1953, che non scattò, e ancor di più nel 1993 con il Mattarellum che non portò fortuna alla Dc, così come il Porcellum si ritorse contro il centrodestra nel 2005. Ora l’Italicum già ha provocato abbastanza problemi ai suoi ideatori, che dovranno far bene i conti per evitare che anche la versione 2.0 abbia effetti deleteri. Ha davvero ragione Arturo Parisi: la partita delle regole elettorali sarà quella decisiva per definire i prossimi anni della democrazia italiana.