Il sessantesimo anniversario del Trattato di Roma cade in uno dei momenti più difficili per l’Unione europea, una unione più disunita che mai, si potrebbe dire con un facile gioco di parole. I sei paesi fondatori (Germania, Francia, Italia e Benelux) si sono dati l’ambizioso obiettivo di una ripartenza tenendo conto degli errori commessi e della nuova situazione internazionale. La prima conclusione cui sono arrivati è che non si può andare avanti tutti insieme con decisioni prese all’unanimità. Troppi ormai sono i paesi e troppo diversi, troppo ampie le divergenze culturali, economiche e politiche. Due illusioni maturate dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo si sono rivelate utopistiche: l’allargamento all’Atlantico agli Urali e la creazione di una entità federale. La prima è stata messa in discussione dal revanscismo di una Russia neo-zarista, la seconda dalle tensioni interne agli stati nazionali e tra gli stati nazionali.



Per i paesi fondatori un modo di uscire dall’impasse è dare legittimità piena a quella che viene chiamata una Europa a più velocità: in sostanza è il modello euro riprodotto in campi diversi dalla moneta come la difesa, la sicurezza, l’immigrazione, progetti comuni che possono essere realizzati da un nucleo d’avanguardia senza essere bloccati da chi non ci sta. Proprio la solenne cerimonia che si terrà sabato a Roma dovrebbe battezzare un documento in cui questo nuovo assetto a geometria variabile dovrebbe essere sancito in modo esplicito, nero su bianco.



Questa proposta, annunciata da Germania, Francia e Italia, ha suscitato un’ondata di reazioni negative. I paesi dell’Europa centro-orientale che si oppongono a ulteriori passi avanti verso l’integrazione sono anche contrari a una nuova architettura costruita, ai loro occhi, proprio per tagliarli fuori. Ma le resistenze esistono anche all’interno del nocciolo duro che vorrebbe andare avanti da solo. Il mancato successo di Geert Wilders in Olanda ha fatto tirare un sospiro di sollievo, ciò non vuol dire che le forze anti-europeiste siano già in ritirata. L’appuntamento decisivo resta l’elezione del nuovo presidente francese, con una campagna elettorale segnata più che mai dalla debolezza dei tradizionali partiti filo-europei di destra come gli ex gaullisti e di sinistra (i socialisti). A settembre ci sarà la consultazione politica in Germania, poi toccherà all’Italia nella primavera 2018. E mai come in questa fase il confronto elettorale avrà l’Europa come una delle questioni dirimenti.



Proprio quando dovrebbe prendere il volo, dunque, l’Unione a più velocità si presenta come un progetto minato da difficoltà interne che si incrociano con quelle esterne, la principale delle quali viene dal nuovo presidente degli Stati Uniti. L’incontro con Angela Merkel ha mostrato un Donald Trump che non considera più la Germania come l’alleato fondamentale in Europa e l’Europa come il necessario pendant dell’asse atlantico sul quale si è basato l’equilibrio mondiale dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi. L’indebolirsi di Berlino non va certo a vantaggio della Francia, da sempre considerata un “cavallo pazzo”, o dell’Italia che pure ha goduto anche recentemente della propria posizione strategica sul piano geopolitico. Non sappiamo ancora chiaramente che cosa farà Trump, al di là dei suoi atteggiamenti provocatori, ma appare chiaro che i paesi europei dovranno prepararsi a contare più su se stessi e sempre meno sugli Stati Uniti.

E Roma? Che parte recita su questo nuovo palcoscenico? Il governo italiano si limiterà ad apparecchiare la tavola? Così non fu nel 1957. L’allora ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino, aveva svolto un ruolo importante due anni prima nella conferenza di Messina ed era stato poi molto attivo nella Nato. Ma l’Italia ha segnato in diversi modi anche la nascita dell’euro (fin dal ruolo svolto nel comitato Delors) e lo stesso trattato di Maastricht (non va dimenticata la mediazione svolta nel dicembre 1991 da Giulio Andreotti per smussare le tensioni tra Helmut Kohl e François Mitterrand).

Non si può dire, invece, che il governo attuale abbia marcato in alcun modo, finora, questa “ripartenza” dell’Ue. La sconfitta del referendum costituzionale ha diffuso la convinzione nella maggior parte dei paesi europei che l’Italia non sia in grado di riformarsi. Il debito pubblico appare fuori controllo, le crisi bancaria sembra non avere una soluzione chiara e forte, il processo decisionale (cioè la governabilità), si conferma debole e tortuoso. Tre segnali di questo ritorno indietro sono arrivati proprio negli ultimi giorni: la ritirata sui voucher per accontentare la Cgil; le nomine ai vertici delle partecipazioni statali che rievocano i tristi tempi della prima repubblica, quando a decidere non era il governo, ma il segretario del partito; infine, il rinvio nella manovra di bilancio, un temporaggiamento subordinato alla dinamica politica interna al Partito democratico.

In tutte queste occasioni il capo del governo Paolo Gentiloni è rimasto alla finestra, finendo vittima di manovre politiche condotte dietro le sue spalle e di scelte compiute sopra la sua testa. Un presidente del Consiglio debole, ostaggio non solo di Renzi, ma di lobby e gruppi di pressione che avrebbe dovuto tenere fuori dalla porta. Il Gentiloni ministro degli Esteri si era adoperato per lanciare la nuova Europa a più velocità, il Gentiloni capo del governo sarà il cortese ospite nei sontuosi palazzi di una Roma ridotta a quinta barocca che nasconde il vuoto?