Non va archiviato a cuor leggero lo strappo di ieri (ricucito male) tra Umberto Bossi e Matteo Salvini. La Lega Nord ha abbandonato l’aula di Montecitorio durante il discorso del presidente Mattarella il quale celebrava i 60 anni dei Trattati di Roma che istituirono la comunità europea; il Senatur invece è rimasto: “Meglio sentire, così sei in grado di ragionare”. Salvini è stato tagliente: “In aula ho visto Monti, Napolitano, Prodi, la Boldrini… ovvero i nemici del Paese. Chi sta con questa gente non sta con gli italiani”. Più tardi ha corretto il tiro: “Non esiste alcuna spaccatura con Bossi”.



Sono giorni che il vecchio leader prende le distanze dal giovane erede. Vero che il Carroccio federalista, celtico, padano è stato accantonato dal nuovo corso filo-lepenista, nazionalista, antieuropeista, più ostile agli immigrati che ai meridionali, e in archivio è finita tutta la classe dirigente di una volta; ma Bossi non ha perso il fiuto e soprattutto il contatto con i leghisti della prima ora. E l’aria che tira in campo leghista gli dice di un crescente malcontento della base verso una linea politica che non sfonda. I sondaggi del Corriere della Sera che tanto agitano il Pd e che ringalluzziscono i 5 Stelle parlano, nell’area di centrodestra, di un modesto testa a testa tra Forza Italia e Lega Nord poco sotto il 13 per cento. Che, sommato, non arriva a impensierire i renziani nemmeno dopo la scissione.



Il vento che soffia nelle vele dei grillini nonostante i disastri di Roma e le figuracce nelle “comunarie” non arride invece al Carroccio, che su scala nazionale non riesce a prendere il volo. Grillo ha quasi tre volte i voti di Salvini. E questo costringe il leader leghista a giocare su due tavoli: le urla antieuropeiste e la trattativa con Silvio Berlusconi. Salvini ha accennato a una “federazione del centrodestra”: forse ha cominciato a capire che con le battaglie solitarie, se non sei Grillo, non si va da nessuna parte. O meglio, da una parte ci si va: ci si condanna a fare l’opposizione a vita. Che potrebbe anche essere il destino dei pentastellati.



Ma a proposito di federazione la medaglia si rovescia e tocca chiedersi a che gioco sta giocando Silvio Berlusconi. Nemmeno lui scherza quanto a tavoli su cui mettere le carte. È europeista convinto, come dimostra l’elezione del fedelissimo Antonio Tajani a presidente dell’europarlamento; ma dialoga con Salvini e Giorgia Meloni (la quale pone come condizione per un’alleanza addirittura “l’uscita di Forza Italia dal Ppe”); e al tempo stesso offre sponde al Pd, soprattutto per la futura legislatura, ricevendone in contraccambio la “grazia” per Augusto Minzolini.

E poi c’è Gianni Letta, il grande tessitore, che starebbe lavorando per consolidare la prospettiva di una legge elettorale proporzionale, quella che garantisce al Cavaliere la centralità dello scacchiere politico con qualsiasi risultato. L’esito del ricorso a Strasburgo sulla legge Severino non catapulterà di nuovo Silvio verso la candidatura a premier, ma l’eventuale conclusione positiva gli restituirà la possibilità di trattare in prima persona. Il voto su Minzolini è una mezza vittoria anche per Berlusconi: ormai anche i grillini ammettono che la Severino è stata impugnata soltanto per estromettere lui dal Senato.

Vecchia regola per i momenti di crisi: tenersi aperte tutte le porte e le vie d’uscita. Il che vale soprattutto in un momento come questo in cui ci si avvia verso l’elezione di un nuovo parlamento con il sistema proporzionale e quindi tutto si giocherà sull’abilità nello stringere rapporti e alleanze. Per Berlusconi l’unico con cui prendersela è Grillo; con gli altri meglio andarci cauti. Anche con il Salvini che non perde occasione per criticarlo.