Quasi bloccata in risse e contrapposizioni al limite dell’isteria, la politica italiana sembra voler ripetere lo stesso canovaccio, da cinque anni a questa parte. Il 27 febbraio (la memoria italica è sempre molto corta e labile) ci doveva essere un appuntamento tra le varie forze politiche per individuare le linee di accordo principali per una legge elettorale nuova, funzionale e costituzionalmente corretta.



Devono esserselo dimenticati tutti, perché si parla di uno scontato ritorno al proporzionale, ma di una nuova legge sembra che il Parlamento se ne stia disinteressando. Ci sono osservatori che sostengono: se ne continuerà a parlare superficialmente e poi si andrà a votare nel modo che è attualmente possibile, ma non ci saranno riforme di alcun genere. A essere maliziosi, c’è da pensare che ci devono essere forze politiche che, in qualche modo, bloccano la cosiddetta “calendarizzazione”.



Intanto, il Partito democratico si muove secondo lo schema prefissato di un congresso senza un autentico dibattito di nuovi contenuti e di nuove scelte.

E mentre c’è un governo quasi invisibile, e il dibattito verte sul nulla o sul vuoto spinto delle mancate scelte, in una perdurante crisi economica che non può avvalersi di piccoli passi in controtendenza, i sondaggi, in questo caso abbastanza credibili, assegnano ai pentastellati grillini il ruolo di primo partito, al Pd una flessione, una frammentazione di pochi punti a sinistra anche per gli scissionisti e, a una possibile “ammucchiata” di destra, la possibilità di essere in grado di ritornare protagonista o almeno competitiva.



In questo modo si assiste a un’autentica “vacanza politica”, alla continua disgregazione di uno Stato dove i poteri si combattono tra di loro: il “caso Minzolini” è solo ormai un classico che si ripete da anni con protagonisti diversi.

In questo quadro, ecco che, a sorpresa, l’ex segretario del Pd, il capo degli attuali scissionisti, Pier Luigi Bersani, cerca di accorciarsi l’età, si toglie quattro o cinque anni e ripropone, con un discorso a Campobasso, un dialogo e una possibile alleanza con il Movimento 5 Stelle, come aveva fatto dopo le elezioni del 2013. Dice Bersani: “I pentastellati sono una forza di centro, del centro moderno, e sono un argine alla deriva populista”.

In sostanza, Bersani distingue tra i grillini e le truppe di Marine Le Pen e di Geert Wilders. E non esclude un incontro per possibili convergenze, una ripetizione di quella riunione in streaming che mise in luce tutto il pressappochismo che distinse sia il Pd che il M5s, costringendo poi tutta la politica italiana a un logoramento lungo, noioso e improduttivo, alla rielezione di Giorgio Napolitano, al governo di Enrico Letta, allo #staisereno e al defenestramento, all’irruzione alla segreteria del Pd e a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, con tutte le conseguenze che ne sono derivate, fino alla scissione.

Se si cerca di capire, le motivazioni di Bersani sono molteplici. La prima è che un dialogo con i grillini eviterebbe, secondo l’ex segretario Pd, “robaccia di destra”, “ammucchiate senza senso per circondare i populismi”. La seconda è che Pier Luigi Bersani, forse cresciuto a pane e a metafore agricole, pensa che i grillini siano soprattutto una forza sorretta da un elettorato che viene da sinistra. La terza, che forse è la più grave, è che anche a sinistra del Pd si usa ormai sempre lo stesso schema: non si affrontano i veri problemi della crisi economica e sociale, non si mettono in discussione le scelte sbagliate sul piano economico degli anni Novanta, non si ripensa alle contorsioni di cui la sinistra, in tutto il mondo, ma particolarmente in Italia, è stata capace di fare e gestire.

Fa indubbiamente impressione che un uomo, un personaggio come Alfredo Reichlin, morto recentemente, togliattiano di formazione, ingraiano di simpatia, si sia posto negli ultimi anni di vita la questione se uomini di sinistra come lui abbiano mai rimesso in discussione il loro vissuto politico, prima e dopo il 1989 (la caduta del Muro e l’implosione del comunismo) e invece un uomo, anche simpatico e onesto, come Bersani, ripeta schemi logori, in un clima politico che sta diventando una palude in cui si può restare impantanati, lasciando che dalla disillusione si passi ad altre forme di lotta politica.

Secondo gli schemi usuali di questi tempi, c’è già stata la risposta di Matteo Renzi e prima ancora del vicesegretario Lorenzo Guerini. Toni ovviamente da rissa e da distinzioni rancorose, che non servono a nulla, tanto meno a un dialogo costruttivo nella sinistra italiana.

Ma la ripetitività dello schema bersaniano viene anche dai pentastellati, che hanno già risposto alle avances del vecchio segretario Pd con una durissimo post, pieno di sfottò, pubblicato da Beppe Grillo — stavolta a sua firma — sul suo rinomato blog. Il deputato Alfonso Bonafede ha dichiarato: “Sottolineo che noi non facciamo accordi con nessuno, puntiamo al 40 per cento e, una volta al governo, faremo le nostre proposte che le altre forze politiche potranno votare alla luce del sole”.

In pratica, ci si scusi il paragone, “uno strofinaccio bagnato” in faccia, che tiene conto di una realtà che è ormai chiara a tutti tranne forse a Bersani e ai suoi amici: può capitare qualsiasi cosa in Italia; Virginia Raggi può anche operare un nuovo “sacco di Roma” come i lanzichenecchi nel 1527; Di Maio e di Di Battista possono gareggiare nel “congiuntivo perduto”. Ma è tale la delusione di questa classe dirigente, di questa politica che i pentastellati non rappresentano ormai neppure l’ultima speranza, ma solo la firma di una protesta per tutto quello che è avvenuto in questi anni di cosiddetta seconda repubblica e di un totale sbandamento politico.

La replica di Bersani, con tutto il rispetto per la persona, diventa quasi patetica.