Angelino Alfano governa, evidentemente, a sua insaputa, nella migliore tradizione scajolesca, e non solo. Deduzione inevitabile dopo la sua uscita contro la Rai, o meglio la nomina di Antonio Campo Dall’Orto disposta dal governo un anno fa. Per carità, è vero che è sempre il presidente del Consiglio ad avere l’ultima parola su quella poltrona-chiave, come del resto sulle nomine pubbliche in genere, ma quanto i ministri e gli altri partiti della coalizione riescano o non riescano a influenzarle è funzione della caratura politica e anche intellettuale degli stessi. In questo caso, perfino parlare di caratura sembra azzardato.
“Nell’ambito di tante scelte che Renzi ha fatto”, ha detto Alfano, dopo lo scandaletto del programma di Paola Perego chiuso per “sessismo”, “quella che è riuscita peggio è quella del direttore generale della Rai. Farebbe prima a dimettersi lui che a chiudere trasmissioni”. Ora, qui non c’è da difendere Campo Dall’Orto: lui – poverino – sta semplicemente confermando con i fatti ciò che tutto il mondo sapeva di lui stesso molto prima che lo innalzassero a un simile soglio, e chi lo sapeva più di tutti era proprio Renzi, che puntò su di lui proprio in virtù dei suoi chiari demeriti, e non dei suoi meriti, come accade quasi sempre nel mondo cronicamente ammalato di familismo del potere italiano.
Il “Campo” aveva brillato per una sola e inimitabile stagione, trovandosi, come il Barone di Munchausen, a cavallo di una palla di cannone sparata in Italia da un colosso straniero, quella Mtv che fu la prima tv musicale proposta a un pubblico di giovani che stava aprendosi all’uso del piccolo schermo, dove non trovava letteralmente null’altro che lo attraesse. Trovò Mtv e la scelse: quanto fu bravo Campo Dall’Orto, per questo? Quanto lo sarebbe stato chiunque al suo posto. Non più di un palo su cui rimbalza un pallone prima di andare in rete. Il gol è di chi ha tirato il pallone, non è del palo. Chiaro per tutti, chiarissimo a Renzi: che apposta paracadutò in Rai un uomo che per questo gli dovesse moltissimo e che, aggiunta importante, non avesse da difendere alcuna miglior retribuzione per la buona ragione che il mercato di migliori proprio non gliene avrebbe offerte.
Ma detto tutto ciò, e di tutto ciò, cosa ne sa Alfano? Ovvero, se ne sa, perché non ne parlò allora? “Ne parlo ovunque perché il conto lo pagherà soprattutto il Pd, non Alternativa Popolare”, ha risposto Alfano a chi gliel’ha chiesto, ed è un’altra affermazione difficile da decifrare, perché non si capisce il motivo di tanta sollecitudine del capo di Alternativa Popolare verso le sorti del Pd…
Ma il tema vero è che oggi Alfano è il lascito più inquietante – non per le sue iniziative attive, trascurabili, ma per l’ingombro oggettivo che occupa nella politica italiana – di Berlusconi al Paese. Silvio lo individuò come giovane leader possibile del suo centrodestra, per un “quid” di leadership che ben presto lo stesso Cavaliere disconobbe, e quindi in realtà lo scelse in base alla stessa logica con cui Renzi ha individuato Campo Dall’Orto: la demeritocrazia, promuovere i brocchi per non subirne mai la concorrenza e per poterne considerare scontata l’obbedienza assoluta. In questo senso, Alfano è per l’appunto il Campo dall’Orto della politica. Si accredita competenze creative che non ha, ed è palese che non ne ha di organizzative.
Basta cercare in Rete per constatare come il suo nome e le sue gesta siano prevalentemente accostate a costruzioni satiriche, giusto un gradino meno di Razzi. Lo stesso Renzi, quando era semplicemente il segretario di un Pd primo partito di sostegno al governo Letta, entrò a gamba tesa contro Alfano per il caso del sequestro e deportazione della Shalabayeva e della figlioletta, decisi dal Viminale cioè da Alfano, su cui lo stesso Alfano aveva osato dire che “non ne aveva saputo nulla”. Il “maleducato di successo” che si preparava a stroncare Letta con il suo “Enrico stai sereno”, in quel caso la disse giusta: “Se Alfano sapeva, ha mentito e questo è un piccolo problema. Se non sapeva davvero, è molto peggio”. E difatti lo ingaggiò poi, nel suo primo e successivo governo, come ministro dell’Interno: pura demeritocrazia, appunto, anche qui.