E’ andata meglio del previsto. Non solo la Dichiarazione di Roma è stata firmata da tutti e 27 i soci del club Europa, ma fra il Campidoglio e il Quirinale si respirava aria di festa, fra selfie, scherzi e pacche sulle spalle. Se l’Unione riparte con un po’ di slancio in più il merito è soprattutto del duo Gentiloni/Mattarella, padroni di casa impeccabili.



Premier e Capo dello Stato hanno saputo muoversi in maniera coordinata: al primo il ruolo di tessitore, al secondo il compito di chiudere la giornata con un monito tutt’altro che diplomatico, affinché anche il più euroscettico rappresentante dell’Est avesse ben chiaro che nella sala degli Orazi e Curiazi si è aperta una fase costituente e che non c’è tempo da perdere: o l’Europa si rifonda rapidamente, oppure il declino sarà la prospettiva più concreta, e la Brexit (che comincerà formalmente proprio questa settimana) sarà solo l’antipasto.



Per l’Italia il vertice celebrativo dei 60 anni dei trattati istitutivi dell’architettura europea si è rivelato un indubbio successo diplomatico. Peccato però che ben poco potrà pesare nella complessa partita a scacchi in corso da mesi fra Roma e Bruxelles. Il credito acquisito pilotando abilmente il vertice non potrà certo addolcire la pressione dei Moscovici, dei Dombrovskis, degli Juncker, che chiedono una manovra correttiva subito. 

Tre miliardi e 400 milioni subito, richiesta che non dovrebbe essere difficile accogliere, visto che il bilancio dello Stato viaggia oltre gli 800 miliardi. Eppure intorno a questa richiesta si sta svolgendo un braccio di ferro relativamente silenzioso, che potrebbe essere il preludio di ben più pesanti richieste in vista della legge di bilancio che questo parlamento in autunno dovrà votare, prima di sciogliersi. Una manovra praticamente da lacrime e sangue (c’è chi parla di venti miliardi, chi arriva a raddoppiare la cifra). 



Sia chiaro: si tratta di uno scontro a colpi di fioretto, a base di complimenti sugli sforzi riformatori fatti dall’Italia che mascherano un’inequivocabile volontà di chiedere al nostro paese una correzione di rotta non rinviabile. Ripresa ancora fiacca, ha spiegato Dombrovskis, quindi correzione dello 0,2% come Padoan si è impegnato a fare entro aprile.

Gli uffici del dicastero dell’Economia stanno vagliando da settimane tutte le ipotesi in campo. Tutto — secondo il ministro — sarà pronto entro Pasqua: per il 10 aprile deve essere presentato il Documento di Economia e Finanzia. La correzione dei conti al massimo qualche giorno dopo. 

Le intenzioni di Padoan (e di Gentiloni) di assecondare le richieste europee si scontrano però con un quadro politico interno sotto pressione. Il problema numero uno per Palazzo Chigi e via XX Settembre si chiama Matteo Renzi. In tempo di primarie l’ex premier ha provato a rinviare le scelte sollecitate dall’Europa per il timore di doverne pagare il prezzo politico, ma non c’è riuscito. I tagli di spesa (perché di questo si tratterà, essenzialmente) potranno essere relativamente indolore adesso, ma non certo a settembre, quando la sessione di bilancio entrerà nel vivo. 

Lì i nodi verranno al pettine, e per evitare una procedura d’infrazione per deficit eccessivo le forbici non potranno che far male. Renzi viaggia verso una tranquilla riconferma al vertice del Pd, e toccherà a lui quasi da solo sopportare le proteste delle categorie che — in un modo o nell’altro — verranno toccate: dovranno essere i deputati e i senatori democratici a dire sì. Si badi bene: se si arriverà a lacrime e sangue nell’autunno 2017 è perché la legge di bilancio approvata un anno fa ha fallito. E quella legge l’aveva scritta Renzi. 

Il braccio di ferro fra Nazareno e Palazzo Chigi si preannuncia insidioso e generatore di instabilità. Eppure Renzi non ha scelta: è lui a essere più debole in questa fase, e alla fine, volente o nolente, dovrà cedere. Resta da capire se questo avverrà con un lavoro di squadra e convergente con quello di Gentiloni e di Padoan, oppure no. E’ questa la partita chiave che si profila all’orizzonte dell’autunno politico. Se questo passaggio sarà conflittuale, le opposizioni — 5 Stelle in testa — se ne avvantaggeranno in termini di consensi. All’ex premier converrebbe sposare la tesi della necessità della manovra, dei vantaggi che essa porterà (meglio di una mazzata made in Bruxelles), perché il prezzo politico da pagare sarebbe certamente inferiore. 

Non è affatto detto che le cose andranno così, dal momento che l’istinto di Renzi lo spingerà probabilmente in direzione opposta, anche con la speranza di agganciare una parte dell’elettorato euroscettico, presentandosi come campione della lotta contro lo strapotere delle burocrazia comunitaria. Cadere in questa trappola potrebbe davvero essergli fatale.