È politicamente scorretto affermarlo, ma lecito sospettarlo e comunque traspare dall’analisi dei fatti: è come se il governo, ovviamente per ordine personale dell’allora presidente Matteo Renzi, avesse fatto una questione di principio, un principio che somiglia al puntiglio, nel “fissarsi” su quei 30 chilometri che dividono Squinzano, in provincia di Brindisi, da San Foca, in provincia di Lecce. E nel dire “no” alla Regione Puglia che da sempre sosteneva a gran voce non l’inopportunità di far sbarcare il gasdotto Tap in Puglia – il governatore pugliese Emiliano questo non l’ha mai detto -, ma di farlo approdare a San Foca. Molto meglio, secondo lui, Squinzano, dove il consiglio comunale era d’accordo, e dove l’approdo sarebbe avvenuto “in un’area già compromessa da punto di vista industriale, a ridosso della centrale Enel di Cerano”. Che più agevolmente e con maggior convenienza avrebbe potuto essere riconvertita da carbone a gas.



Invece no. Saltando a pie’ pari la richiesta degli enti locali e applicando una legge che lo consentiva – almeno, così ha detto ieri il Consiglio di Stato – l’azienda che realizza l’oleodotto e il governo hanno scelto San Foca; e oggi dicono, e c’è da credergli, di aver valutato addirittura quattordici alternative, senza trovarne nessuna migliore. È dunque adesso a San Foca che si concentra la polemica contro l’espianto di un paio di centinaia di ulivi per far posto al cantiere, e il loro trasferimento altrove. Ma il senso della polemica è completamente diverso, va ben oltre quei duecento ulivi, e l’enfatizzazione della battaglia degli alberi finisce per screditarla e per dipingere lo scontro come il solito teatrino ambientalisti senza senso, da “sindrome Nimby” (not in my backyard, non nel mio giardino).



In realtà, sul caso Tap si è giocata una partita molto più grave. Si è riflessa la rottura politica tra Renzi ed Emiliano, che si era manifestata anche nel referendum sulle trivelle. Il governo del politico fiorentino aveva cavalcato sin dal programma elettorale un punto in sé rilevante e per certi versi condivisibile, poi naufragato insieme alla riforma costituzionale grazie al voto referendario: che cioè le autonomie locali delle Regioni andassero ridotte. Ragione logica: va impedito a un ente locale, per quanto importante, di sequestrare e di fatto avocare scelte il cui impatto locale non sia. Tipicamente le scelte relative alle infrastrutture nazionali, dagli elettrodotti alle strade alle ferrovie agli oleodotti e gasdotti.



Su questa battaglia di principio si sa com’è finita, il governo ha vinto, il quorum non c’è stato, le trivelle potranno essere utilizzate dai petrolieri senza il permesso degli enti locali: e ci può stare, ma questa del Tap è un’altra storia. Emiliano ha tentato di aprire un confronto nel merito col governo, sostenendo l’ipotesi di una diversa localizzazione dell’evento; e è invece sul metodo che il governo ha detto no. “La questione dell’espianto degli ulivi – dice oggi Emiliano – non è il cuore della vicenda: ogni anno spostiamo centinaia di migliaia di ulivi perché l’ulivo è una pianta che può essere spostata e ripiantata. Per la comunità il problema è politico, non legale: perché abusare della volontà popolare e imporre un’opera che tutti i sindaci stanno chiedendo di spostare in un altro luogo con la disponibilità della Regione a realizzarla altrove. Questo modo di governare viene contestato dalla gente”. 

Ma la polemica impone una considerazione ancora più grave. Se un contrasto politico tra un governatore e il premier può determinare un irrigidimento del governo su una scelta discutibile con forte impatto locale, ne consegue che, nel proprio interesse, tutti gli elettori alle elezioni regionali potrebbero sentirsi indotti a votare il candidato più filogovernativo, per procurarsi, così, la benevolenza dell’esecutivo e i vantaggi che ne deriverebbero. Uno schema impensabile e antidemocratico. Eppure… è la conseguenza logica di una linea di governo centrale molto aggressiva contro l’autonomia delle Regioni.

Al fronte del “no”, in Puglia, non restava dunque che la protesta contro lo spostamento degli ulivi, ma questo ha fatalmente equiparato – nell’immagine mediatica che ne promana – i ragionevoli “no-Tap” pugliesi ai talebani “no-Tav” della val di Susa. Invece, come ricorda Emiliano, “lo spostamento degli ulivi, per un’opera che non è ancora cantierizzabile, visto che è ancora aperta la discussione sulla Valutazione di impatto ambientale per il microtunnel sulla terra ferma che dovrebbe accogliere il tubo, è illegale”. È quindi inevitabile che il braccio di ferro tra oppositori del Tap e forza pubblica messa in campo dal governo si concentri attorno alle operazioni di espianto degli ulivi a San Foca; ma è altrettanto inevitabile che lo spessore del contrasto politico che ha determinato la crisi sia oscurato dal balletto dello scontro fisico locale e lo appiattisca al rango tafferugliesco delle infinite altre vicende italiane di questo genere che hanno vanificato investimenti anche importanti senza alcun costrutto per il Paese. Una brutta storia, comunque la si voglia vedere. “È incredibile – si lamenta Emiliano – che questa sia una questione che debba essere regolata dal questore e dal prefetto e dalle forze di polizia con i caschi e i manganelli. Avremmo potuto trovare una soluzione diversa qualora il governo non si fosse incaponito su una localizzazione sbagliata dal punto di vista politico oltre che tecnico”. 

È chiaro che da due anni in qua, dalle prime schermaglie governo-Regione sull’ubicazione del Tap a oggi, la contrapposizione anche personale tra Matteo Renzi e Michele Emiliano si è accentuata fino a diventare, oggi, sfida in campo aperto del secondo contro il primo per la segreteria del partito, ma, in sostanza, per una futura leadership nazionale, visto che sulla prima non c’è gara e la riconferma di Renzi è scontata. E in questo senso la libertà d’azione politica dell’Emiliano sfidante nazionale è minacciata dal dovere dell’Emiliano governatore di fluidificare al meglio il rapporto con il governo di Roma. Ma ormai la frittata è fatta e solo due cose restano evidente: la prima è che, presto o tardi, la Tap sbarcherà dove non sarebbe stato logico farla sbarcare; la seconda, che questo metodo scelto da Matteo Renzi di gestire il rapporto tra centro e periferia, tra governo e Regioni, non gli produrrà altro che danni politici concorrendo al declino della sua leadership.