Domenica Luigi Zingales sul Sole 24 Ore. Lunedì Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, a stretto giro sul column del Corriere. Infine Lorenzo Bini Smaghi, ieri mattina, di nuovo sul Sole. Tutti interventi a valle del super-vertice Ue di Roma. Tutti a dibattere del futuro dell’euro, delle possibilità dell’Italia di restare nella “prima velocità” della nuova Ue; sulla resistenza delle democrazie europee strette fra populismi e tecnocrazie nel lungo 2017 elettorale. Zingales – dall’America trumpiana – con toni nettamente critici sull’obsolescenza degli europeismi narrativi (o burocratici). Alesina e Giavazzi subito a spada tratta contro tutti i barbari alle porte dell’euro (e dell’ortodossia europeista). Bini Smaghi preoccupato che la nuova governance Ue in cantiere mantenga il primato della rappresentatività politico-democratica sul decisionismo tecnocratico. Un confronto aperto, di livello apprezzabile: a riprova ulteriore di come l’avvicendamento fra Matteo Renzi e Paolo Gentiloni abbia segnato una soluzione di continuità netta anche rispetto a una lunga fase di narrazioni uniche, soprattutto in campo politico-economico.
L’avvicinamento all’euro, negli anni 90, ha visto misurarsi a vario titolo sulle colonne dei grandi media Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi, Mario Monti e Giulio Tremonti, Giuliano Amato, Tommaso Padoa Schioppa e – certamente non ultimo – Mario Draghi. Sono stati loro – spesso in prima persona, in editoriali e interviste – a raccontare alla classe dirigente nazionale come e perché l’Italia stava entrando nell’Unione economico-monetaria. Inutile riepilogare a quali responsabilità istituzionali siano stati poi chiamati tutti gli “intellettuali di governo” di quella stagione.
I quattro duellanti odierni sono certamente i loro eredi in quanto opinion-maker riconosciuti: ma di essi, finora, solo “LBS” può vantare un incarico di qualche rilievo (membro dell’esecutivo Bce, prima dell’avvento di Mario Draghi alla presidenza). Certamente Bini Smaghi è da tempo candidato en reserve: il suo nome è circolato anche di recente, come possibile sostituto di Pier Carlo Padoan, se il ministro dell’Economia fosse stato promosso premier. L’ipotesi può tornare d’attualità: Padoan continua a essere gettonato per la guida dell’Eurogruppo al posto dell’olandese Jeroen Djsselbloem (il nome del ministro italiano è stato fatto pochi dal commissario Ue agli Affari Economici, Pierre Moscovici). Ma l’economista italiano – già direttore esecutivo del Fmi e segretario generale dell’Ocse – è sicuramente in lizza anche per la possibile successione a Ignazio Visco al vertice della Banca d’Italia.
Il mandato di sei anni del governatore scade in autunno e le ragioni che rendono realistico un avvicendamento non mancano: l’oggettiva debolezza in cui Bankitalia si è ritrovata dopo una gestione problematica della crisi bancaria; i contrasti fra Visco e l’ex premier Renzi; la necessità di pensare alla futura governance Bce (le schermaglie sul dopo-Draghi nel 2019 sono già cominciate e non è certo che l’Italia avrà ancora un seggio nell’esecutivo). Inutile dire che Bini Smaghi è “ruota di scorta” ma anche concorrente di Padoan per qualsiasi incarico: anche nel 2011 Visco emerse come governatore dallo stallo fra Fabrizio Saccomanni (candidato di Draghi e dell’establishment interno di Via Nazionale) e Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro sostenuto dal ministro Tremonti, al termine della sanguinosa estate del 2011. Quella in cui Draghi, appena designato alla Bce, aveva sottoscritto il diktat-austerity all’Italia e di fatto dimissionato il governo Berlusconi.
E Zingales? L’eterno contrarian ultraliberista, dopo essere stato assiduo di Renzi della prima Leopolda, non ne è mai stato valorizzato in termini di incarichi. L’economista di Chicago si è quindi ultimamente ritrovato su posizioni dialoganti con M5s: formazione politica alla disperata ricerca di personale spendibile per eventuali incarichi di governo. L’ipotesi della partecipazione dei grillini a un esecutivo di coalizione dopo elezioni 2018 segnate dal probabile ritorno al proporzionale, non è più remota. E Zingales – sebbene finora alla prova solo nei consigli d’amministrazione di Eni e Telecom – non ha certo carte meno in regola per fare il ministro finanziario di quante ne avessero alla nomina Euclid Tsakalotos o il suo predecessore Yanis Voroufakis nel governo greco guidato da Syriza. Il suo compagno di stanza e di ricerche a Chicago, Raghuram Rajan, è diventato governatore della Banca centrale indiana. Ovvio che se la coalizione vincente fosse invece quella etichettata come “Nazareno” (Renzi-Berlusconi) il front runner per via XX Settembre sarebbe ancora Bini Smaghi.
E’ meno facile immaginare Alesina e Giavazzi direttamente candidati a qualcosa: come fu per il loro pigmalione Monti, prima alla Commissione Ue poi a Palazzo Chigi. Il loro attivismo è probabilmente più leggibile in chiave di difesa di un certo establishment – fra finanza, istituzioni e università – messo sotto prolungata pressione rottamatoria da Renzi. Chissà se ad esempio l’ipotesi attribuita all’ex premier – la chiamata in Bankitalia dell’attuale Ceo di Intesa Sanpaolo Carlo Messina – li troverebbe favorevoli. Ma il “grande gioco” è ancora agli inizi.