Uno traffica con le società, l’altro con le banche. Uno lavora con la finanza, l’altro con le finanziarie. Sempre soldi di mezzo. Entrambi finiti sotto inchiesta per faccende d’affari finiti male, uno per qualche ditta finita in bancarotta, l’altro per un istituto di credito che ha gettato nella miseria migliaia di risparmiatori che avevano fiducia cieca nella banca del territorio.
Le storie parallele di Tiziano Renzi, padre di Matteo, e di Pierluigi Boschi, padre di Maria Elena (ormai ribattezzata “Maria Etruria”), cui si aggiunge il coinvolgimento di un altro uomo di fiducia dell’ex premier, il ministro Luca Lotti, senza contare gli interessi nella Consip di Alberto Bianchi, presidente della Fondazione Open e tra i finanziatori del Giglio magico, sono più che incidenti di percorso enfatizzati dalla stampa nemica del segretario Pd. Compromissioni, complicità, sotterfugi, condizionamenti, piccoli traffici di provincia che aspirano a estendersi sul scala moltiplicata: è questo il contesto in cui è nato e cresciuto il Giglio magico, la corte renziana. Un marchio di fabbrica che esplode in tempi diversi, prima lo scandalo Banca Etruria e ora lo scandalo delle forniture Consip nel quale babbo Renzi sarebbe l’intermediario tra governo e appaltatori. È vero che le colpe dei genitori non devono ricadere sulla prole, ma è altrettanto vero che questo intreccio si sta configurando come un vero sistema.
Ma nei giorni in cui ci vorrebbe un nuovo Turgenev per scrivere il seguito dell’immortale Padri e figli, divampano altri scandali nel Pd, come quello del tesseramento gonfiato a Napoli. Il partito del rinnovamento, della rottamazione, del taglio netto con il passato, si mostra invece perfettamente allineato con la vecchia politica. La leadership di Renzi, che fino a qualche mese fa sembrava destinata a prolungarsi per tutta la prossima legislatura e forse anche oltre, ora vacilla drammaticamente. La caduta di Renzi dopo il referendum del 4 dicembre pareva assorbita dal basso profilo del governo Gentiloni, scelto per far dimenticare gli eccessi personalistici del predecessore, e il nuovo esecutivo ha pure rinunciato all’apporto di Verdini per dare un segnale di discontinuità. Il tentativo di Renzi di andare a votare entro la primavera è stato sventato dalla decisione di indire subito il congresso del Pd per consolidare la futura leadership.
Adesso invece il vero problema di Gentiloni è la tenuta stessa del Pd messa a rischio dalle inchieste. Lo dimostra il fatto che personaggi di primo piano come Franceschini e Cuperlo chiedono il rinvio delle primarie e, di conseguenza, del congresso: andare adesso alla conta equivarrebbe ad aprire una guerra civile, una lotta interna dagli esiti imprevedibili. O meglio, un esito sarebbe certo: dare l’idea di un partito dilaniato dalle liti, impoverito da una scissione senza più possibilità di essere ricomposta. Ne risentirebbero inevitabilmente i risultati delle elezioni amministrative e, a cascata, gli esiti delle politiche, in qualunque momento si dovessero tenere.
Il premier che ha cercato di riformare tutto fuorché la giustizia ora vacilla sotto i fascicoli aperti dalla magistratura in una nemesi infausta. E un’altra minaccia gli arriva da una toga che risponde al nome di Michele Emiliano, ex pm di Bari entrato in politica senza avere mai dato le dimissioni dall’ordine giudiziario, che prima voleva seguire gli scissionisti D’Alema e Bersani ma poi, annusata la tempesta in arrivo, ha preferito restare nel Pd per passeggiare sulle ceneri del Giglio magico. Renzi ha ripreso ad andare in tv per ricostruire la propria immagine. Ma forse in questo momento sarebbe più opportuno fermarsi un giro, come al Monopoli, e lavorare per evitare una frammentazione del Pd forse irreversibile.