A dispetto della differenza di età, dalla distanza che oscura tutto, sembra che i destini di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi siano paralleli: due leader che per la fede ostinata in se stessi hanno spaccato e stanno spappolando i loro rispettivi partiti, rimanendo comunque gli unici punti di riferimento dei loro schieramenti.



Del centrodestra è storia, seppure recente; del centrosinistra è solo cronaca, con la documentazione giorno per giorno dei nuovi ostacoli che sorgono, quotidiani appunto, alla riconferma di Renzi al comando del Pd.

L’impressione è che Renzi alla fine non ce la farà a restare segretario del Pd, e se anche ce la farà, ciò avverrebbe a costo di mille bassi compromessi e tagliano i ponti con mille nemici.



La politica efficiente, in tutto il mondo, compresa quella dopo l’unità d’Italia o dell’era democristiana, era diversa. Politici al comando si ritiravano se sconfitti per poi tornare in un secondo momento. Fanfani, Moro e lo stesso Andretti hanno dominato il paese non abbarbicandosi sulla loro posizione e spaccando il partito nel frattempo, ma entrando e uscendo dalla stanza dei bottoni. Così prima di loro avevano fatto Crispi o Giolitti. Così per un secolo ha fatto in India la famiglia Nehru/Gandhi, così fanno i premier giapponesi, alternandosi fra di loro, con le loro rispettive parentele, da un secolo e mezzo.



Così non hanno fatto in Cina il capo nazionalista Chiang Kai-shek e la sua nemesi comunista Mao Zedong. Entrambi pur di cercare di mantenere il proprio potere hanno distrutto il paese. Se alla fine della seconda guerra mondiale Chiang avesse accettato di andare a elezioni, come suggerivano gli americani e come i comunisti cinesi e di Mosca avevano accettato, la storia della Cina sarebbe stata diversa. Non ci sarebbe stata la guerra civile e forse la Cina si sarebbe evoluta su una strada simile a quella italiana con la sua Dc e il suo Pci.

Chiang però voleva sterminare i comunisti e così finì i suoi giorni confinato nell’isola di Taiwan.

In parallelo è il destino di Mao. Se avesse accettato di uscire dalla politica all’inizio degli anni 60, quando emerse con violenza tutto il dramma della folle politica del Grande Balzo in Avanti (1958-1959), che uccise per fame forse oltre il 15 per cento della popolazione, tutta la storia del paese sarebbe stata diversa. Invece Mao si intestardì e tornò al potere con la Rivoluzione culturale (1966-1976) scaraventando il paese in dieci anni di anarchia semicontrollata che azzerò la classe dirigente e la cultura del paese.

Certo è difficile per chi comanda capire se è il momento di ritirarsi o insistere. Dopo tutto la leadership politica nasce dall’insistere soli quando tutti dicono il contrario. Ma ciò è vero specie in sistemi autoreferenziali, come le dittature, dove il leader è schermato nel suo potere assoluto da un’analisi oggettiva dei fatti. In sistemi aperti, democratici, dovrebbe essere diverso.

Anche senza avere le dimensioni della Cina, la caparbia di leader italiani ormai passati nell’insistere nella propria sopravvivenza politica potrebbe avere effetti altrettanto devastanti. Con l’ombra estremista di Marine Le Pen che incombe in Francia quasi come vendetta contro le mille inefficienze e i tanti ritardi dell’Unione Europea, lo spappolamento italiano di destra e sinistra può diventare il primo pezzo concreto che manda a pallino la Ue.

In ciò come un’isola nascosta dalle maree sta emergendo la roccia del governo di Paolo Gentiloni. Solo poche settimane fa sembrava dovesse cadere a comando di un fiat di Renzi. Oggi invece appare chiaro che Gentiloni può cadere invece proprio per la debolezza di Renzi e lo sfarinamento della sua rete di alleanze.

Qui, a ben vedere, ci sarebbe anche la via di uscita, almeno temporanea, per l’Italia e per i due leader al comando. Berlusconi ha bisogno di tempo per sistemare i fatti suoi, quindi deve sostenere Gentiloni. Renzi oggi invece deve dimostrare affidabilità esterna e forza interna, quindi la tenuta del governo attuale gli porta lustro e vita politica.

Razionalmente quindi i due potrebbero parlare con il premier attuale e pensare una strada da percorrere per iniziative pratiche che diano ossigeno al paese in questi prossimi difficilissimi mesi.

Al di là però di misure per i conti e concentrazioni di potere necessarie ma complicatissime dopo il fallimento del referendum costituzionale, l’Italia — ma anche l’Europa — deve ripartire dal Sud Italia. Su queste pagine Giorgio Vittadini ha invitato i politici del sud a essere lupi, a osare prendere la guida politica dell’Italia a partire dal sud, cosa che potrebbe cambiare la geografia politica dell’Europa e del Mediterraneo.

La Dc, con i suoi leader meridionali come Aldo Moro, ci provò, ma le condizioni storiche erano diverse. La guerra fredda aveva ghiacciato il Mediterraneo e l’unico modo per aiutare lo sviluppo del sud fu la Cassa per il Mezzogiorno, che aiutò la crescita ma lasciò i poli di sviluppo al sud isolati rispetto al cuore economico europeo che batteva al nord e verso l’Atlantico.

Oggi l’emersione della crescita asiatica e la riattivazione oggettiva dell’antica via della seta riporta la centralità del sud Italia. La rinascita del porto del Pireo, i mille progetti che si stanno affastellando su una rotta balcanica che parta dalla Grecia prova più di ogni altra cosa quanto il sud Italia potrebbe prendere la guida di questo cambiamento.

In tal modo si riaffaccia in realtà il progetto di Carlo Magno — un’Europa che rinasca con un forte abbraccio franco-tedesco e con i piedi ben piantati in Italia. Qui il sud può diventare il grande porto e Milano, il centro di smistamento, l’antica Mainland, il cuore del continente. Senza il Sud Italia come porta verso l’Africa e l’Asia, il nord Italia rimane periferia tedesca.

Questo è il progetto che dovrebbe abbracciare il governo Gentiloni con tutte le sue forze e Renzi e Berlusconi dovrebbero sostenerlo per il bene del paese, ma anche di se stessi.

 

(Traduzione dal cinese di Francesco Sisci)