Chi dovesse spiegare in una ribalta diversa da quella nazionale quali siano i problemi cui l’Italia deve fare fronte, si troverebbe a spiegare tre paradossi che difficilmente sarebbero compresi: quello parlamentare, quello governativo e quello politico.

1. Il nostro attuale Parlamento durerà per tutto il tempo della legislatura; almeno così è da augurarsi, se pensiamo in modo responsabile rispetto alle questioni che si devono affrontare. Tuttavia, tutti sanno che si tratta di un Parlamento delegittimato, per via della pronuncia della Corte costituzionale n. 1 del 2014, che ha dichiarato illegittima costituzionalmente la legge elettorale. 



Prudenza avrebbe voluto che, sistemata nel modo migliore la legge elettorale, si fosse ritornato a votare. Invece, sotto la spinta del governo Renzi, si è innestata nella legislatura una riforma costituzionale che è stata respinta dai cittadini nel referendum del 4 dicembre, ed è stata approvata una legge elettorale — ormai è stato acclarato — peggiore della precedente, caduta anch’essa davanti alla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 35 del 2017, l’ha dichiarata incostituzionale ribadendo i principi della sua precedente pronuncia.



Il Paese in questo momento ha due leggi elettorali diverse, una per la Camera dei deputati e una per il Senato della Repubblica. Certamente si potrebbe andare al voto anche domani mattina, ma la stessa Corte costituzionale e il Presidente della Repubblica hanno auspicato, giustamente, che il Parlamento ponga rimedio a questa situazione, con un intervento legislativo che consenta al Paese di andare al voto con due leggi elettorali più omogenee e senza il pericolo di sprecare la prossima legislatura.

Ecco il primo paradosso: i cittadini e gli elettori si devono affidare, dunque, a questo Parlamento disastrato e disastroso, per venire fuori da questa situazione e sperare che duri sino alla sua scadenza naturale, per avere il tempo di raggiungere un accordo utile sulla nuova legge elettorale.



2. In questa legislatura abbiamo avuto ben tre governi: Letta, Renzi e Gentiloni, con il quale si spera di arrivare a fine legislatura. In realtà li dovremmo considerare accomunati tutti dall’essere dei governi post crisi economica (i governi della crisi sono stati il governo Berlusconi e quello Monti). Tuttavia, questi governi non riescono a guidare il Paese fuori dalla palude in cui la crisi ha collocato l’Italia. Infatti, la soluzione dell’emergenza e la ripresa economica restano ancora un miraggio. 

L’Italia ha una condizione unica in Europa: il suo governo appare incapace di dare non dico una direzione nuova, ma almeno un segnale diverso che riaccenda la speranza. 

Eppure le condizioni per fare bene ci sarebbero tutte: l’Italia è un grande Paese che continua a esportare prodotti molto sofisticati e con successo; esporta anche cervelli di prim’ordine e anche questa esportazione come la precedente non conosce sosta e aumenta di continuo. All’interno, l’Italia è un paese ancora ricco, con un risparmio enorme, le famiglie hanno riorganizzato i loro bilanci, mantenendo la parsimonia dei periodi di magra; e anche se certamente la crisi ha ampliato la povertà, l’Italia resta un Paese delle opportunità.

Non si capisce perché il governo non riesca a valorizzare questi elementi positivi e a correggere i difetti dell’azione pubblica: il governo Letta sembrava immobile; quello Renzi iperdinamico ma inconcludente, sebbene abbia aumentato di 54 miliardi il debito pubblico; il governo Gentiloni è più riservato — tempeste Consip a parte — ma fa fatica a sbrogliare la matassa, accerchiato com’è dalla manovrina imposta dalla Commissione europea e dal nuovo Def, che deve agire sul debito, oltre che sul deficit. Proprio per queste ragioni — ed ecco il secondo paradosso — nessuno, tranne gli incoscienti, auspica che gli venga meno la fiducia delle Camere, anzi si spera che questo governo ci porti sino all’approvazione della prossima legge di bilancio, magari con un po’ di più di equità fiscale e di giustizia sociale.

3. Infine, il sistema politico italiano manda segnali poco rassicuranti: la curva della partecipazione, che con il referendum era salita quasi al 70 per cento, è nuovamente ridiscesa al 50 per cento a causa dell’offerta politica. Tutti i partiti grandi perdono consenso, così il M5s e il Pd, e non a causa della Raggi o della scissione. Questi partiti non manifestano alcuna capacità di incontro nell’affrontare i problemi del Paese e anche quelli che teoricamente dovrebbero o potrebbero allearsi, come i partiti del centrodestra, sembrano ormai andare per vie diverse. 

I partiti politici mandano segnali di frammentazione; inoltre si sono rarefatti, quasi nessun partito mantiene rapporti veri con i militanti o conosce i propri elettori. Le piattaforme programmatiche scarseggiano, anzi non si va oltre gli slogan. Nel dibattito precongressuale del Pd ci sono pochi argomenti, ma tutti stanno scaldano i muscoli per una grande prova di forza. 

Perché questo è il risvolto preoccupante di questa situazione: tutte le forze politiche, nonostante siano in queste condizioni poco edificanti, pretenderebbero di avere un potere assoluto e personale. Si manifesta di continuo una tensione verso un’immagine politica, anziché verso un programma politico; emergerebbe un’espressione della politica con una tendenza plebiscitaria diffusa, anziché orientata verso la ricerca di una legittimazione della propria rappresentanza.

È difficile che i cittadini possano fare evolvere un sistema politico così malmesso; con molta probabilità, sarebbero più propensi alla sua eliminazione; eppure — ecco il terzo paradosso — devono pregare perché resista, almeno sin quando non arrivino tempi migliori.