Non ce la fa Paolo Gentiloni a liberarsi dell’ombra inquietante e proterva di Matteo Renzi. Ma qualcosa è cambiato. Anzi, tutto. Paolo Gentiloni sta dando la sensazione di volersi lentamente emancipare da un Matteo Renzi che appare ogni giorno più solo. Ieri durante una cerimonia a Palazzo Chigi non ha perso l’occasione per riconoscere al suo predecessore la bontà del lavoro fatto. E con cattiveria quasi. Stile: “chi ha dato, ha dato…”.E del resto per la prima volta è Renzi a creare imbarazzo al governo e non una Guidi o un Lupi qualsiasi.



Infatti, da una parte Renzi è costretto a parare i colpi dell’inchiesta che coinvolge suo padre Tiziano e il suo fidatissimo braccio destro Luca Lotti; dall’altra Gentiloni è concentrato sulla “fase due” del suo governo e pronto a promettere tagli alle tasse sul lavoro. Tutti e due in televisione. Il primo venerdì scorso su La7 a rispondere alle domande sull’inchiesta Consip proprio nel giorno in cui il padre veniva interrogato dai pm di Roma, il secondo domenica su Raiuno, intervistato da Pippo Baudo nel salotto super-pop di “Domenica in” per dire che abbasserà le tasse e resterà in carica fino alla fine della legislatura.



Due Pd: il primo chiacchiere e distintivo del rottamatore ed il secondo minimalista e specializzato nel mestiere della sopravvivenza come solo i politici romani in salsa andreottiana sanno fare. Sono passati anni luce da quando il proconsole renziano Filippo Sensi — allora portavoce di Renzi a Palazzo Chigi — chiedeva al deputato semplice Gentiloni la cortesia di incontrare al suo posto alcuni giornalisti del sud est asiatico. Il futuro premier non si sottrasse e chissà che non sia stato di buon auspicio, visto che di lì a poco sarebbe stato “promosso” ministro degli Esteri. È soprattutto per questo che a Renzi il premier deve certamente molto, visto che fu proprio lui a “ripescarlo” dopo il flop del 2013, quando si candidò alle primarie del Pd per il sindaco di Roma e arrivò solo terzo dopo Ignazio Marino e David Sassoli con il 15 per cento di voti. 



Anche per questo, forse, Gentiloni ha l’accortezza di ribadire sempre la stretta continuità tra il suo governo e quello precedente. Che c’è certamente nella forma e nelle prese di posizioni ufficiali, ma forse inizia a sfilacciarsi nella sostanza delle cose. A partire dall’eventualità del voto anticipato, una questione su cui l’ex segretario del Pd ha più volte puntato i piedi e che due giorni fa Gentiloni ha di fatto archiviato spiegando che andrà avanti fino al 2018. 

Non ce la fa Gentiloni a mollare Renzi insomma. L’ha già fatto. E l’ha già fatto in realtà anche Mattarella, che deve aver confidato il suo pensiero anche ai cinesi se consideriamo la freddezza nei confronti dell’infante di Rignano sull’Arno. E nonostante l’ex premier ci tenga sempre a far notare che è stato grazie a lui che Sergio Mattarella è arrivato al Colle. 

Resta il problema di Dario Franceschini. Infatti, se anche lui dovesse prendere le distanze dall’ex premier questi rischierebbe seriamente di perdere le primarie per la segreteria del Pd che si terranno il 30 aprile. E persa la sponda di Silvio per i giochi di società che hanno caratterizzato il 2014, Renzi appare sempre più destinato alla più sorprendente delle rottamazioni. E il conte Gentiloni, consapevole come pochi della storia romana, non può fare a meno di ricordare il tempo antico in cui uno dei tanti arrivato a Roma con idee bellicose, tale Brenno, urlava “Vae victis”. Guai ai vinti. Si mormora ancora oggi appartenesse al “giglio magico”.