Dopo tre mesi, quasi tutti si sono accorti che Paolo Gentiloni è il nuovo leader su cui poggiano le sorti della (seconda? terza? quarta?) repubblica italiana. La riserva di Matteo Renzi, l’uomo che è arrivato alla Farnesina in un secondo tempo dell’azione del famoso “rottamatore” e poi è stato trapiantato a Palazzo Chigi, ormai compare anche in apertura dei tg.



Che cosa è successo? Quello che inevitabilmente doveva capitare dopo la disastrosa sconfitta del referendum del 4 dicembre.

Renzi pensava che tutto potesse sistemarsi con una sorta di blitzkrieg, una “guerra lampo”, nel partito e nel Paese. La sua visione politica si è dimostrata talmente limitata e provinciale che nel Pd ha perso un pezzo significativo di rappresentanti della sua storia, con una scissione che è tutta da valutare sul piano elettorale. E la rivincita (promessa o minacciata) di Renzi nel Paese, dopo un congresso di riconferma a tamburo battente, doveva diventare un pronto ritorno alla urne per la guida di un Paese che invece lo ha mandato a “quel paese”.



Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il congresso si presenta incerto e ricco di manovre dei vecchi democristiani che hanno aderito al Pd e, solo dopo anni, al gruppo socialista europeo, l’unico storicamente riformista oltre al Psi italiano.

In compenso il governo-fotocopia, quello che doveva sbrigare gli “affari correnti” per conto di Renzi, sembra destinato a terminare la legislatura, a meno che la situazione internazionale non degeneri al punto di un inevitabile (questa volta veramente) ricorso anticipato alle urne anche se ormai di solo qualche mese.

Intanto Gentiloni balza sulle prime pagine dei giornali (che ormai sono uno sfizio per pochi intimi) e apre i telegiornali. Ha partecipato a un summit, vagamente patetico, con il popolarissimo-al-contrario Hollande, la signora Merkel, lo spagnolo Rajoy. Sembravano, ci scusiamo per l’irriverenza, il Quartetto Cetra in un Festival di Sanremo d’antan.



Gentiloni, nel merito del dibattito europeo, in una Unione che dovrebbe festeggiare i 60 anni e ne dimostra 160, ma portati malissimo, deve prendere atto che l’Italia è ancora sotto accusa per i problemi dell’immigrazione (incredibile!). E alla vigilia del Consiglio europeo, probabilmente per spiegare l’Europa a velocità diverse, Gentiloni dice: “I livelli di integrazione differenziata sono sostanzialmente già un dato di fatto. Questa prospettiva non deve essere vista né come una resa né come una minaccia. Certamente è un cambiamento di prospettiva”. Parole arcane, di vecchio sapore democristiano, adattissime al conte, antico bisnipote di colui che fece il patto con Giovanni Giolitti.

In realtà i quattro che si sono riuniti e il Consiglio europeo sono letteralmente terrorizzati dai contrasti tra i candidati francesi che contrastano Marine Le Pin, la cui vittoria manderebbe tutta l’Europa a gambe per aria. Con in più sullo sfondo i problemi internazionali che crea Donald Trump, quelli che invia il russo Vladimir Putin e il clima politico successivo alla Brexit.

Chissà se i quattro hanno pensato a un piano B. Difficile immaginarlo. Ma è certo che, al di là di tutte le dichiarazioni, c’è solo l’attesa del 23 aprile e del 7 maggio, ormai, a decidere sui futuri dell’Unione. Bisogna solo aspettare le elezioni francesi.

In Italia intanto il clima politico, a parte i “successi” personali riconosciuti a Paolo Gentiloni, continua la “giornata in pretura” dell’affare Consip. Seguirne tutti i retroscena è quasi impossibile, ma è evidente che il padre di Renzi, Tiziano, sembra assurto a essere il “nuovo Catilina” della Repubblica italiana (la seconda? la terza? la quarta? Mah). Il clima che da venticinque anni si è imposto in questo paese è quello dell’avviso di garanzia che dovrebbe garantirti ma invece ti inchioda, anche se poi tutti dicono di essere garantisti, nipoti di Cesare Beccaria e ribadiscono che l’avviso è inviato nell’interesse di chi viene chiamato in causa. La sostanza è che con questi principi siamo ancora al clima del 1992.

Ma in tutto questo ci sono vecchie novità che stanno tornando a galla, che riappaiono come in un cauchemare. Renzi si scansa e perde colpi, giorno dopo giorno, ma è pronto a dare battaglia, secondo il vecchio stile tenace degli scout che in politica diventarono democristiani. Luca Lotti non si dimette neanche per sogno (e non si capisce bene per quale ragione lo dovrebbe fare), sempre secondo stile scoutistico. Poi c’è Sergio Mattarella, presidente della Repubblica rispettoso delle regole, della tenuta del sistema, di un andamento tranquillo e di un generale abbassamento di toni, decisamente troppo alti al momento. Di Gentiloni abbiamo già detto: vive una seconda giovinezza, dopo quella breve sessantottina e il ritorno allo stile democristiano. Ma in questi giorni sembra che all’orizzonte compaia anche Dario Franceschini, il cattolico di sinistra e scrittore, una colonna prima dellUlivo e poi del Pd. Sembra che abbia diversi dubbi sulla riconferma di Matteo Renzi alla segreteria del Pd.

Insomma, a pensarci bene, sono tutti democristiani, hanno un “timbro inconfondibile”, nel movimento e nella vulgata.

Nel clima culturale da 1992, che ormai continuiamo a vivere, ricompaiono come “fantasmi” i democristiani, ritornano e forse, rispetto alla capacità (si fa per dire) dell’attuale classe dirigente sono anche una “piccola speranza”, che tuttavia conferma il vecchio detto: “moriremo tutti democristiani”.

Ci si chiede solamente se, per fare questa riscoperta, c’era bisogno di tutto quello che è stato fatto da venticinque anni a questa parte. Un quarto di secolo per ritornare al punto di partenza, altro che sistema proporzionale. Francamente è un po’ troppo.