Le primarie Pd sono entrate nel vivo. Orlando alza il tiro, e accusa Renzi dell’arroganza con cui ha trattato tutti dentro e fuori il partito. Da “Fassina chi?”, a “Enrico stai sereno”, e culminata nel famoso “ciaone” dopo il referendum sulle trivelle ai dodici e passa milioni di italiani che gli avevano votato contro. Isolando il Pd dal Paese come si è visto il 4 dicembre, e portandolo alla scissione. Renzi ribatte appellandosi, pur nel confronto politico interno, a una solidarietà di partito che non prevede coltellate da parte di chi ti siede accanto, e invitando chi perde al rispetto democratico di chi vince, che nel lessico renziano significa accodarsi alla sua leadership, punto. Più di uno degli avversari alle primarie ha facile gioco a ribattere che la pugnalata alle spalle è lo stile che il fiorentino ha portato nel Pd, a cominciare dal benservito a Marini e Prodi per finire al siluramento di Letta. Conquistata con il coltello tra i denti e svelta di mano, è la leadership di Renzi a doversi chiedere ora per chi suona la campanella. 



Ma il nodo vero della polemica è tutto politico. Ed è il nodo di un Pd che, schiacciato su e da Renzi, non ha voluto fare in conti con la reale domanda posta al Pd dalla pesantissima sconfitta al referendum. Una sconfitta che è stata un clamoroso No a tre anni di Renzi e alla prospettiva “governista” (accentramento del potere nelle mani del premier eletto, e conosciuto “la sera stessa del voto”, depotenziamento delle istituzioni elettive, messa in mora del ruolo dei corpi intermedi nella dialettica politica e sociale) da lui proposta al Paese. 



Di fronte a quel No un partito minimamente normale si sarebbe seriamente posto il problema di cambiare la linea politica, e per pura credibilità la leadership che doveva interpretarla. Chi ha posto il tema — Bersani, D’Alema, Speranza, Rossi — è stato di fatto accompagnato alla porta, con l’accusa di tradimento e disfattismo. Allestendo in tutta fretta un congresso con il rito abbreviato, come si è espresso Emiliano, per rilegittimare il leader ferito prima che a qualcun altro venisse in mente nel Pd che il problema non era curare le ferite del leader, ma quelle del partito, della sua capacità di restare al centro della scena politica con chance di governo; e di contenimento dei 5 Stelle e della possibilissima rimonta del centrodestra. 



Come sta venendo alla luce nell’accalorarsi del confronto congressuale, una strategia dal respiro corto, perché i nodi sono venuti al pettine, dando ragione ai bersaniani e dimostrando che buttare fuori di casa Bersani & Co., che ponevano il problema, non ha buttato fuori di casa il problema. Ed è significativo che a riproporlo con forza ora sia Orlando, candidato ben più organico di quanto lo sia Emiliano alla storia e alla vicenda del Pd. E il problema è il quesito politico rimosso: un Pd a trazione renziana è ancora in grado di ambire al ruolo che ha avuto finora? La risposta di Orlando, e di Emiliano, suona No. La vittoria di Renzi serve a lui e ai suoi, non al Pd. Anzi, di fatto, è una vittoria contro le prospettive di governo del Pd nella prossima legislatura. Di qui l’affondo di Orlando sulle manfrine di Renzi sulla legge elettorale, che il probabile riconfermato segretario fondamentalmente non vuole, e di cui ad ogni modo è chiaro che non toccherà il caposaldo dei capilista bloccati: lo strumento che gli consente il controllo del congresso e del partito che lo ha seguito al congresso, e del partito che verrà fuori dalle prossime urne, anche se fosse sconfitto, poiché gli consentirà di designare pressoché la generalità degli eletti. 

È un gioco a carte truccate a danno del Pd e del Paese per mettere in sicurezza un ceto politico — Renzi e la sua cerchia — che ha raggiunto troppo presto, con minore maturità del necessario, un potere cui si è affezionato. E che più che mettersi in gioco senza rete per il bene del partito e del paese vuole solo, forzando la mano e la posta, rimanere in gioco. 

Peccato che Orlando non lo abbia capito prima, e per tre anni si sia aggregato senza grande spirito critico all’arroganza che oggi denuncia. Un fatto che ne indebolisce la credibilità come alternativa a Renzi fuori del Pd, come è probabile confermino le primarie del 30 aprile, restituendo a Renzi un partito che non ha mai lasciato. Ma restituendoglielo senza nessuna capacità di federare a sinistra, e in balia di un’alleanza obbligata con Berlusconi, sempre che non sia l’ex Cav a federare intanto di nuovo un centrodestra messo in grado di vincere, o i 5 Stelle a risolvere a tutti il problema vincendo da soli. 

Un quadro in cui è altamente probabile un’ulteriore emorragia dal Pd a favore di Articolo Uno. Non pochi quadri e dirigenti andrebbero là dove ci sono le loro idee, dopo aver provato un’ultima volta a farle valere nel congresso del Pd. Alla fine seguirebbero solo i loro elettori. La cosa ha una sua logica.