Dunque, ci risiamo. Questa volta non scompare l’inchiesta, come è avvenuto in molti degli ultimi casi che hanno poi provocato dimissioni di ministri. Questa volta, nella famosa storia della Consip, la società controllata dal ministero del Tesoro che funziona da centrale unica per gli acquisti della pubblica amministrazione, viene indagato anche un capitano dei carabinieri del Noe, perché si è sbagliato, o ha voluto sbagliare, la trascrizione di una intercettazione che coinvolgeva pesantemente il padre di Matteo Renzi, Tiziano. Lo scandalo si allarga o si restringe? Staremo a vedere.
I “maestri” del giornalismo “investigativo”, quelli de Il Fatto Quotidiano, si sono rifugiati in un titolo piuttosto cacofonico: “Cade un indizio su babbo Renzi (ma restano in piedi tutti gli altri).” Una perla di giornalismo, un titolo alla rovescia di quelli che Dino Buzzati faceva al Corriere della Sera di altri tempi.
Che cosa è successo? E’ stata attribuita ad Alfredo Romeo una frase di Italo Bocchino. Insomma il capitano, nella trascrizione, ha attribuito all’imprenditore quello che aveva detto Italo Bocchino e che riguardava Tiziano Renzi. Secondo la procura di Roma, che ha preso in mano l’inchiesta dai procuratori di Napoli, Henry John Woodcock (famosa “lanterna iuris”) e Celestino Carrano, non c’è stata neppure interferenza dei servizi segreti.
Naturalmente l’inchiesta procede e si vedranno tutte le sue implicazioni, speriamo nelle sedi opportune e nelle forme dovute, senza errori. Ma il più è già stato fatto. Tiziano Renzi, il padre dell’ex presidente del Consiglio, per una combinato disposto, consueto in Italia dagli anni del “manipulistismo” del mitico 1992, tra inchieste e informazione, è già un “condannato” dalla pubblica opinione, anche se a suo carico, al momento, non risulta nulla.
Si parla della crisi della democrazia, del bilanciamento dei poteri, della lotta alla corruzione. Tutto giusto. Ma in Italia c’è un fatto particolare. Sin dagli anni Ottanta, quando esplose il caso Tortora, il pm che lo aveva inquisito, mandandolo in carcere, aveva scalato i gradini della carriera fino alla Cassazione. Poi Enzo Tortora fu assolto, completamente scagionato, ma morì perché, come aveva detto, “gli era scoppiato qualcosa dentro”. E naturalmente il magistrato non fece neppure un plisset. Insieme alla sua categoria, subì, probabilmente con rancore ma senza conseguenze, il risultato inequivocabile di un referendum che metteva la giustizia italiana nell’occhio del ciclone, con l’80 per cento degli italiani sfiduciati sull’azione dei giudici e dei pm in particolare.
Poi venne il tempo del riscatto, con i “furti” della politica, dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, l’implosione del comunismo e, per l’Italia, un’amnistia del 1989 sul finanziamento pubblico dei partiti che andava benissimo ai percettori di tangenti arrivate dall’Est, dal nemico nella guerra fredda, ma che mise sotto accusa tutti gli altri partiti che si erano serviti di finanziamenti illeciti.
Di fatto, come’è ormai noto agli italiani, quel periodo segna l’inizio della liquidazione dei partiti democratici, della “prima repubblica” e quello di una crescente invadenza della magistratura nella vita politica italiana, con apparizioni televisive, candidature di magistrati in Parlamento, nascita di nuovi partiti e un avvitamento della politica italiana di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.
I problemi della giustizia italiana si rivelarono in tutta la loro ampiezza e furono denunciati, in quel periodo, da pochi. La maggioranza degli italiani si fidava di una magistratura politicizzata, divisa in correnti, apertamente ostile alla politica.
Tra libri, analisi di osservatori stranieri e alcune autocritiche, in quegli anni si arrivò a parlare di “golpe” mediatico-giudiziario. I giornali, in particolare con alcuni giornalisti, riuscivano a impossessarsi di notizie che precedevano gli avvisi di garanzia, in quel momento considerati come una condanna definitiva.
Il vecchio presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, appena dimesso dal Quirinale, formulò un’ironica storia su queste combinazioni mediatico-giudiziarie a Milano. Spiegava sorridendo Cossiga che “c’era del tenero tra i gatti del portiere di via Solferino e quelli del Palazzo di Giustizia e quindi le notizie passavano direttamente dal Palazzo alla tipografia del Corriere“.
Di fatto, un giovane, bravo e onesto giornalista di via Solferino, oggi alla Stampa di Torino, diede addirittura le dimissioni come cronista che si occupava di Mani pulite. Ma ci furono tante voci critiche sull’azione del mitico “pool”. Un libro pubblicato in America, “The Italian guillotine” non fu mai tradotto in italiano.
Più che di un golpe mediatico giudiziario, si potrebbe dire che fu un’operazione concordata da alcune autentiche “caste” che reclamavano spazio sulla scena politica italiana: la magistratura, per mantenere il suo potere, ormai quasi unico al mondo, con un pm non separato, come carriera, da quella di giudice e con l’obbligatorietà dell’azione penale; i “capitani di sventura” del capitalismo italiano moribondo, tutti proprietari di giornali ed editori impuri che erano entrati in collisione con l’establishment politico del tempo, che si opponeva a una politica selvaggia di privatizzazioni, di smantellamento dell’impresa statale e di un abbraccio con il neoliberismo, predicato quasi con perentoria brutalità dai nuovi centri di potere internazionale, anche di sinistra; alcuni giornalisti che diventarono improvvisamente famosi.
Consapevolmente o inconsapevolmente, diciamo così, questi nuovi protagonisti contribuirono alla liquidazione della classe politica italiana, favorendo la grande operazione delle banche d’affari angloamericane, che curavano le privatizzazioni e favorivano svendite di pezzi del tessuto produttivo italiano, procurandosi nel frattempo ricche percentuali di guadagno per il lavoro svolto.
Il problema è che, in seguito, i “capitani di sventura” si ritirarono in “nicchie dorate” e i giornali diventarono lentamente “bollettini” da poche copie, con giornalisti sempre più allineati. La magistratura, tra “questioni morali” e lotte alla corruzione e all’evasione, divenne sempre più ingombrante, con personaggi incredibili, che da qualcuno sono stati definiti “garantisti da Barbablù”, e nel mezzo c’è una comparsa da avanspettacolo di classe politica, che ogni tanto parla a casaccio di “certezza della pena”, dimenticando che persino giacobini come Robespierre e Saint-Just si battevano per la certezza del diritto, che ovviamente contempla la pena.
Ma se si sottolinea soprattutto la pena, si cade nel primato dello Stato sulle persone e quindi si offende implicitamente lo stato di diritto.
Ora, con il caso Consip, sembra che qualcuno sia arrivato ad attaccare apertamente una magistratura, che, tra l’altro, appare molto divisa al suo interno, come in una sorta di guerra feudale.
C’è chi ricorda il 1992, c’è chi mette sotto accusa la politicizzazione, i passaggi continui e non controllati tra magistratura e politica, l’incredibile fatto che un giudice, che era tuo avversario politico, possa poi giudicarti in tribunale.
E’ arrivato il momento della verità e della chiarificazione? Dopo quello che è avvenuto all’inizio degli anni Novanta con suicidi, incriminazioni, carcerazioni preventive, accuse e raffiche di assoluzioni. Dopo quello che ha patito una scienziata come Ilaria Capua, messa sotto accusa e completamente scagionata, per reati che avrebbero potuto procurarle un ergastolo a causa dell’ignoranza sulle ricerche di questa grande studiosa di virus, c’è da allargare le braccia e disperare. Qui in Italia non ci sono nemmeno “garantisti alla Barbablù”, ma solo degli improvvisati “garantisti alle vongole”, che di garantismo non sanno nulla.
Ilaria Capua alla fine se ne è andata in America a lavorare e fare grande ricerca e non ha alcuna intenzione di ritornare in un paese dove è stata maltrattata e traumatizzata prima di essere completamente scagionata.
A questo punto, forse conviene anche a Tiziano Renzi attraversare l’Atlantico. Magari sperando che il figlio concluda la sua carriera, senza diventare troppo importante. Intanto, il problema del contrasto tra giustizia e politica non si risolverà. La vera anomalia italiana è proprio questo squilibrio che farebbe inorridire Montesquieu e Alexis de Tocqueville, che erano solo dei teorici della democrazia.
Fare un paragone con gli inglesi è esagerato: quelli conoscono l’istituto dell’Habeas corpus fin dal 1215. In Italia ne riparliamo tra settecento anni.