Nel 1920, uscì anche in Italia, per tipi dell’allora Editore Treves, uno dei libri che fecero diventare notissimo un giovane economista inglese, John Maynard Keynes. Il testo si intitolava Le conseguenze economiche della pace

A quell’epoca gli economisti erano ancora degli umanisti e avevano un rispetto naturale, scontato, della politica. Quindi non si fidavano di calcoli matematici e algoritmi di vario tipo per stabilire l’assetto del mondo. Keynes, sebbene giovanissimo, era stato un protagonista della Commissione economica del Trattato di  Versailles del 1919 e aveva denunciato, dimettendosi, gli errori di quel Trattato di pace sbagliato, condotto da tre personaggi che Keynes descrisse con grande ironia: Georges Clemenceau, David Lloyd George e il presidente americano dell’epoca Woodrow Wilson, anche se era lodato da tutti per la sua “visione da sognatore”.



Il giudizio di Keynes fu terribile e tragicamente profetico: questi stanno preparando la seconda guerra mondiale. Gli americani furono diffidenti nei confronti del loro presidente, un democratico, e il Congresso non approvò mai il Trattato di Versailles. Vale la pena di ricordare che il giudizio di Keynes fu condiviso da uomini come Winston Churchill. 



In questo momento bisognerebbe rileggere quel libro, perché se gli errori economici hanno conseguenze politiche di tale drammaticità, un vuoto politico come quello attuale, su scelte economiche tanto perentorie e ultimative come quelle attuate sin dal 1992 e dopo l’implosione e la scomparsa di un “impero” come quello sovietico, è simmetrico e allo stesso tempo continuativo del ragionamento keynesiano. In fondo, così come si affrontò il ’92, soprattutto il “dopo”, non poteva che portare al disordine attuale, contrassegnato addirittura dalla scomparsa della politica.



Siamo entrati, per parafrasare il titolo di un altro grande libro, quello di John Kenneth Galbraith del 1977, in un’era che che non è solo quella “dell’incertezza”, ma che si può definire “l’epoca della precarietà”. Solo nelle ultime ore c’è stato un ennesimo attentato vicino ad Aleppo, con esplosioni di autobombe e attacchi a pullman di civili sciiti. La Siria è ormai un lembo dell’antica Mesopotamia, dove le frontiere non esistono più, dove i tanti eserciti che si combattono hanno quasi azzerato i confini degli Stati in una situazione del tutto incontrollabile. 

La Siria, che era impropriamente, fin dal 1971, una sorta di protettorato russo, ora è solo un aspetto del caos generale. Nello stesso tempo dalla Casa Bianca di Washington partono ordini per “bombe madri”, minacce di reazioni o addirittura manovre preventive di fronte alle minacce di armamento nucleare, di esperimenti e di preparativi da parte di Kim Jong-un che ha sempre nostalgia del nonno, “l’eterno Kim Il-sung”, fondatore della Corea del Nord, che ha combattuto anche contro il generale MacArthur. 

Tra il regime comunista di Pyongyang e l’America di Donald Trump sembrerebbe di essere ritornati a una sorta di “periodo del 38° parallelo”, quando il mondo si divideva tra Est e Ovest in un confronto dove prevaleva la logica del contenimento militare.  Ma questa è solo un’illusione quasi confortante rispetto al momento attuale.

Ora il “grande disordine”, che va dalla vecchia Mesopotamia in subbuglio all’area del Pacifico, dove sono in apprensione il Giappone, la Cina (protettrice di Pyongyang), la Corea del Sud e tutta l’area circostante, è diventata un altro centro nevralgico dell'”epoca della precarietà”, dove il “grande disordine sotto il cielo” di cui parlava Mao c’entra come i cavoli a merenda. Viviamo infatti in una sorta di anarchia incontrollata politicamente a livello mondiale e dove non si capisce quale equilibrio si possa raggiungere, anche guardando al contrasto aperto che esiste tra le ultime superpotenze della guerra fredda, gli Usa e la Russia post-sovietica.

Forse una “ripassatina” degli ultimi due secoli di storia sarebbe necessaria. Nel 1815, dopo l’urgano bonapartista, il congresso di Vienna, con politici dotati di spregiudicatezza, senso del realismo e della ragione di stato riuscirono a stabilire un equilibrio che funzionò, tranne che in alcuni punti di crisi settoriali, per quasi cento anni, fino alla prima guerra mondiale, quando si voltò letteralmente epoca, perché sparirono due realtà secolari. L’impero asburgico (che era ancora Sacro romano impero) e l’impero ottomano. Sbagliare la pace di Versailles del 1919 fu certamente grave, ma forse più comprensibile umanamente di fronte alla portata della grande svolta epocale.

Dal dicembre del 1943 a Teheran, passando per Yalta nel febbraio del 1945, fino a Potsdam nel luglio dello stesso anno, si rimediò con un grande accordo e un grande equilibrio agli errori della vecchia Versailles e agli orrori dei due conflitti mondiali, che forse fu uno solo. Tanti imbrogli, tante contraddizioni, tanti sacrifici nazionali e individuali, ma sostanzialmente un male minore rispetto al conflitto mondiale, che stava ormai diventando nucleare. Realpolitk e senso della Stato, salvaguardando il minore dei mali.

Poi è arrivata la svolta del 1992: dopo che il Muro di Berlino era franato, distrutto semplicemente con i picconi e le mani da un popolo, implose definitivamente l’unico comunismo reale di grande potenza, quello dell’Unione Sovietica e la storia cambiò, non finì, come azzardò qualche pensatore improvvisato.

Non ci voleva molto per immaginare che occorreva sostituire quell’ordine mondiale con un altro ordine o meglio con un altro equilibrio. Come rintronati e “ubriacati” dal crollo e dal ridimensionamento di una delle grandi potenze, in questo caso l’Urss, i guru che si ritrovano ogni anno a Davos e gli “Archimede pitagorici” delle grandi banche d’affari si improvvisarono nuovi strateghi mondiali e pensarono di accantonare la politica, inneggiando a “lotte alla corruzione”, alla libertà assoluta di affari, speculazioni borsistiche e commerci, contro “caste politiche” da tenere sotto controllo.

In un crescendo fastidioso e insopportabile di retorica, dove la pace discendeva addirittura dall’Unità europea, dal libero commercio e neppure dalla grande Alleanza nordatlantica che, dallo sbarco in Normandia del giugno 1944 e dalle alleanze successive, aveva rimesso in piedi la stessa Europa divisa, impoverita e militarmente paracomica nei confronti del nuovo avversario che si profilava da Est, il vecchio e mai domo ordocapitalismo spediva i suoi report in tutto il mondo, sceglieva gli uomini politici da promuovere, magari pescando tra i grandi impiegati (cosiddetti consulenti) delle grandi banche d’affari. 

Il risultato di questo mancato appuntamento politico, perché di politica non si deve più parlare, è sotto gli occhi di tutti.

C’è una comica banda di incapaci che nel 1992 ha ignorato tutto, poi ha provocato con scelte demenziali la crisi del 2007, poi ha insistito per riparare alle malefatte con la cosiddetta politica dell’austerità e della deflazione, quella che il premio Nobel Paul Krugman ha definito “La notte degli Alesina viventi”.  

Intanto, il vuoto politico, che non esiste, ha creato improvvisatori sprovveduti che hanno in mano il destino dei popoli e che rischiano di portarci a una guerra mondiale con le armi nucleari. 

Speriamo che qualcuno rilegga qualche libro di politica e di storia. Magari rivelandosi come uno degli “angeli che salvano il mondo che sta cadendo”, secondo un’antica leggenda ebraica. Intanto stiamo vivendo nell’epoca della precarietà e subiamo le conseguenze politiche della nuova economia.