Quando alla fine degli anni Novanta in Thailandia il partito Thai rak Thai del miliardario Thaksin Shinawatra ebbe il suo primo successo elettorale, con un egregio 20 per cento dei voti, fece come sta facendo ora il Movimento 5 Stelle: si rifiutò di partecipare a governi di coalizione.

La strategia era pensata da Pansak Vinyaratn, un genio della politica asiatica e peso massimo della situazione in Thailandia. Pansak era stato architetto del processo di pace in Cambogia alla fine degli anni Ottanta ed ex capo di gabinetto di uno dei governi più liberali del paese, contro cui i militari nel 1991 organizzarono il golpe più sanguinoso della storia della Thailandia; nonché, nel 1994, fondatore del rivoluzionario quotidiano Asia Times.



Infatti alle elezioni successive del 2001, il paese — ancora nella morsa della devastante crisi finanziaria del 1997 — diede per la prima volta nella sua storia la maggioranza assoluta al Thai rak Thai. Il governo che ne seguì, con un programma di aiuti massicci alle comunità rurali e di lotta sistematica alla burocrazia legata a doppio filo al vecchio sistema, cambiò per sempre il Paese.



La crisi attuale dell’Italia non è forse minore di quella post 1997 in Thailandia; ma c’è la strategia discreta di un Pansak nel M5s? E c’è anche un Thaksin con la volontà e la determinazione di spingere a fondo un programma di rinnovamento dell’Italia?

Se la risposta è sì, finora non si sa chi questi siano o dove siano. È infatti improbabile che Beppe Grillo, leader carismatico del partito, assuma la guida di un futuro governo dove il M5s ottenga la maggioranza assoluta. Inoltre, finora non si vede dopo la morte di Gianroberto Casaleggio uno stratega del calibro di Pansak. Né Casaleggio, padre o figlio, paiono dotati di statura possente, né di certo hanno alla cintura risultati eclatanti come riportare la pace dopo la guerra in Cambogia.



Certo nulla esclude che un leader emerga dal movimento o che così faccia uno stratega con la sua strategia per il paese. Ma finora, mancando l’uno o l’altro, il M5s potrebbe essere privo della forza “positiva” necessaria per convincere gli italiani a votare per loro e non semplicemente contro gli altri.

In questo senso il disastro del comune di Roma con Virginia Raggi è istruttivo. Anche se i 5 Stelle ottenessero la maggioranza assoluta e prendessero il governo, dopo sei-nove mesi di mal governo come quello di Roma l’esecutivo salterebbe per un misto di pressioni interne e internazionali.

Sicuramente l’Italia è molto diversa dalla Thailandia, ma alla fine un problema è identico: o il M5s riesce a convincere gli italiani che può governare, ottiene il 51% dei voti ed effettivamente ci riesce; oppure deve piegarsi a pensare due scelte: un governo di coalizione o lasciare che governino tutti gli altri messi insieme.

A essere ragionevoli, oggi appare improbabile che il M5s ottenga il 51 per cento dei voti e riesca a governare. Ma tutta la storia del movimento sfida calcoli probabilistici e non si può escluderlo a priori. Quindi anche se Grillo e i suoi possono sognare un 51 per cento di buona amministrazione, devono pensare anche a un eventuale consenso del 35 per cento da congelare in opposizione come fece il vecchio Pci o da sfruttare in un cerchio di alleanze come fece la vecchia Dc.

In questo i pentastellati forse si rendono conto che non possono semplicemente aspettare. Mentre fino a qualche tempo fa il tempo sembrava giocasse a favore dei 5 Stelle, oggi forse marcia in senso contrario.

Berlusconi sembra stia riemergendo dal suo vecchio cono d’ombra. Con l’operazione del Milan ai cinesi, il biberon all’agnellino pasquale e una fetta di suffragi cruciale a molte alchimie di alleanze, potrebbe ritornare l’arbitro della politica italiana.

Il governo di Paolo Gentiloni, discreto e alacre, sta ridando fiducia nella speranza di una buona, efficiente amministrazione. Lo stesso Matteo Renzi appare oggi più in salute dopo una cura dimagrante di tv e riflettori, e magari deciderà di uscire dal solipsismo maniacale e delegherà di più a una squadra che non sia di droni o replicanti.

Infine un suo ispiratore, Francesco Giavazzi, nei giorni scorsi ha pubblicato un libro che non denuncia semplicemente la Casta (come hanno fatto tanti predecessori) ma individua strutturalmente nello strapotere dell’alta burocrazia l’ostacolo corruttivo alle riforme necessarie al paese.

Questa analisi potrebbe rapidamente spostare la narrativa (come direbbero certi americani cari a Casaleggio) dai politici corrotti alla corruzione istituzionale della burocrazia priva del freno politico o di quello della concorrenza del mercato. Le denunce della Casta dei politici corrotti sono state il sostrato ideale che ha alimentato finora la rabbia grillina. Un’analisi più complessa delle dinamiche imposte da un’alta burocrazia “substantialmente” corrotta da mancanza di mercato e politica potrebbe marginalizzare il M5s, forse privo di una classe dirigente intellettualmente preparata per afferrare la cosa.

È vero che la questione della corruzione reale dell’alta burocrazia è meno facile e popolare delle urla al politico corrotto, ma insieme ai passi avanti di tutti gli altri elementi (Berlusconi, Gentiloni e Renzi) rischia di danneggiare il M5s, se questo non cambia passo.

In questo clima però hanno più eco le manipolazioni sul candidato di Genova (la rete ha scelto uno, Grillo ha imposto un altro), le piccole vigliaccherie del leader (il blog di insulti di Grillo è suo o no?). Ma soprattutto trapela la frustrazione del più grande traino ideale del movimento, Il Fatto Quotidiano, verso candidati dello stesso movimento. Questi in tv appaiono incapaci di capire il senso del discorso e si attaccano ciecamente alla noticina imparata a memoria anche quando il dibattito volge a loro favore. In questo la tv è magica: spesso gli occhi del grillino di turno si mostrano persi e l’aria del povero Peter Gomez (che avrebbe voluto aiutarli) disperata.

Una più profonda verità poi emerge sempre di più sul movimento. La gran maggioranza dei suoi eletti, a cominciare da Di Maio e Di Battista, sono ex disoccupati, senz’arte né parte, riscattati (e quindi strutturalmente corrotti) dal movimento. Dopo ormai cinque anni di parlamento non sono diventati più saggi. Sono solo più furbetti, e attaccati alla seggiola peggio degli altri. Non hanno altra vita oltre i riflettori della loro protesta assetata di potere e mai vorrebbero tornare a fare il webmaster o il muratore. Non riescono a proiettare una idea futura per il paese, ma sono solo spaventati per quello che può accadere alla loro persona.

Questa corruzione di sostanza già traspare sul perspicace Fatto Quotidiano. Se Grillo e Casaleggio jr. non l’affronteranno radicalmente potrebbe sfarinare il movimento prestissimo. Ciò sarebbe un danno per la politica italiana in questo momento: la rovina per corruzione effettiva del M5s forse priverebbe il paese di uno stimolo importante in questa fase della storia d’Italia.