Dov’è il progetto di riforma del governo dell’Emilia-Romagna? Il presidente Stefano Bonaccini è in ritardo nel presentarlo al pubblico, come aveva promesso prima delle vacanze pasquali,  perché non si tratta di un’operazione di giro. In discussione è la stessa esperienza del riformismo quale fu progettata da Guido Fanti negli anni Sessanta. 



Detto diversamente, è necessario celebrare le esequie del cosiddetto “modello emiliano”. E’ un “caro estinto”, perché su di esso da mezzo secolo ormai i comunisti emiliani avevano costruito la loro identità. 

Al socialismo in un solo paese, come avevano proposto i sovietici, gli emiliani risposero con una variante: assoggettare il capitale e il lavoro, cioè la Confindustria, le cooperative e il Pci, ad una politica di ampliamento dell’occupazione, di gestione non (aspramente) conflittuale delle imprese, di piani di collaborazione offerti dalla rete istituzionale dei comuni, delle province e della Regioni, per interventi di modernizzazione e sviluppo.



Il dominio del Partito comunista venne declinato non alla Bucharin, come partito comunista bolscevico, ma alla bolognese: Pcb, Partito comunista di Bologna. Un esperimento sui generis, insomma. Alla Romagna, come a Ferrara, a Piacenza e alla stessa Modena, è stato dato sempre il minimo, cioè pochissimo.

Il riformismo emiliano è stata la ripetizione silenziosa dei modelli e delle culture politiche della socialdemocrazia europea. Ma non si poteva dirlo a una base tenuta insieme dai miti del catastrofismo stalinista e delle speranze del riscatto delle plebi.

Esse in Emilia, grazie a Fanti e ai suoi collaboratori, diventano proletariato industriale e protagoniste di governo. Alla piccola e media impresa si apre la sfida prima del mercato interno che, grazie alla capacità e all’innovazione delle cooperative, viene conquistato, e successivamente del mercato internazionale. Ma qui tutti si fa più complicato e la piccola impresa rischia di non uscire viva dalle politiche della globalizzazione.



Sarebbe molto comodo tentare di affrontare la crisi di questa grande esperienza politica e istituzionale riducendola a quanto ridonda sulla stampa da qualche settimana.

Le magagne si riducono sostanzialmente a due. La prima è l’uso truffaldino del cartellino per far finta di entrare a lavorare negli uffici della Regione, salvo in realtà uscire a prendere il caffè, fare shopping, portare i cani ai giardini pubblici, eccetera. Lo spettacolo desolante è stato posto da Valerio Staffelli sotto gli occhi di milioni di cittadini attraverso Striscia la notizia e la consegna del tapiro d’oro.

La seconda ha per protagonista l’assenteismo di Alessandro Zucchini, direttore dell’Ibc (Istituto per i beni artistici culturali e naturali dell’Emilia-Romagna), che per la verità lavora sempre per un altro ufficio regionale. 

Nel caso del presidente Angelo Varni questa lamentela (non sempre fondata) si cumula all’elevato stipendio. I circa 3mila euro mensili si sommano allo stipendio di docente universitario e ai tanti rimborsi e bonus. Varni si faceva liquidare dall’Istituto  le spese di iscrizione all’associazione della stampa, gli abbonamenti a giornali e riviste, i viaggi e i rimborsi delle spese vive.

Bonaccini e i renziani, insieme ai bersaniani e non solo, dovrebbero spiegare questa turlupinatura. Perché da decenni vengono buttati via soldi per compensare persone che hanno già altre retribuzioni dall’università, dalle banche eccetera? Non sono stati giustificati i meriti né le funzioni, salvo il fatto che non richiedevano una presenza costante nell’Ibc. La questione non è banale e riguarda il metodo con cui bersaniani e renziani selezionano i ceti dirigenti degli organi regionali. Le scelte cadono sempre sulle stesse persone o sugli stessi bacini.

In altre parole, si va a parare non su professionalità e competenze maturate nella società civile e fuori dal Pcb. Il metodo non muta nei decenni, perché si oscilla tra pescare nella casta dei docenti universitari e tra quanti si sono fatti le ossa con le iniziative (non di rado a vuoto) della Fondazione Gramsci, dell’Istituto Cervi o dell’Istituto Sereni.

Se questo metodo e questo personale politico sono diversi da quelli della vecchia Dc, qualcuno alzi la mano.

A Matteo Renzi, nel momento in cui la sua leadership è contestata da un rifiuto di massa manifestatosi nel referendum del 4 dicembre, e l’organizzazione del consenso si è ridotta ad una confederazione elettorale, Bonaccini non può limitarsi ad offrire le dimissioni di qualche massone furbacchione o la denuncia a magistratura e Guardia di finanza di una decina di dipendenti dell’Ibc.

Ormai l’egemonia di Bologna è diventata quella dell’asso-pigliatutto. La Regione non può vivere senza poter contare su modelli di città metropolitana, aeroporti, centri fieristici, riorganizzazione dei dipartimenti universitari e delle specializzazioni, sviluppo dell’agricoltura circoscritti all’entroterra di Bologna. A pagare sono sempre  state Ferrara, Modena, Forlì, Ravenna, Cesena, Piacenza, in nome di una concezione arrogante e centralistica della politica, dell’economia e della cultura.

L’eredità dei comunisti è ormai una valore che ha un prezzo elettorale. Ma qual è il progetto politico, l’idea di futuro, il disegno di imprenditorialità e anche minimamente di gestione dell’esistente che Bonaccini e quanti come lui sentono il passato come un mucchio di macerie ingombrante e incombente, intendono consegnare a Renzi? 

La certezza che Orlando non sia un’alternativa e attiri artigiani della titubanza e del piccolo cabotaggio come il sindaco Merola, non basta proprio.