Visto dalle rive del Tevere il risultato del primo turno delle elezioni francesi ha un solo perdente certo: Silvio Berlusconi. Per il leader di Forza Italia sarà ancor più difficile tenere a bada i suoi esuberanti alleati potenziali, Salvini e Meloni, che invece festeggiano l’ottimo risultato di Marine Le Pen.
La destra europeista esce dal voto transalpino con le ossa rotte. Le sirene centriste degli Alfano e dei Casini, già flebili, arrivano ancora più attutite dalle parti di Arcore. Il modesto risultato di François Fillon certifica che nel secondo paese dell’Unione una posizione moderata ha un appeal elettorale inferiore agli euroscettici. In fondo è così anche in Italia, almeno secondo i sondaggi: Lega e Fratelli d’Italia insieme vantano un numero di consensi potenziali decisamente superiore a Forza Italia.
Le presidenziali francesi, insomma, sembrano destinate a rinfocolare le polemiche intorno alla guida dell’area moderata. Dalla sua Berlusconi ha un argomento forte: a meno di clamorose sorprese la Le Pen si avvia a una sconfitta nel secondo e decisivo turno, perché già Fillon ha annunciato il voto a favore di Macron, proprio per sbarrare la strada alla leader del Front National, così come il socialista Hamon. Lo stesso è atteso faccia il candidato di sinistra Mélenchon. Difficile immaginare che non scatti la conventio ad excludendum in salsa gallica che già sbarrò la strada al padre di Marine, Jean Marie, nel 2002 contro Chirac. E che già si rivelò insormontabile per il Front National nelle elezioni dipartimentali del 2015.
Si tratta di un problema di isolamento strutturale che sinora ha impedito alla destra francese l’accesso alla stanza dei bottoni, ma che si è visto anche in Olanda. La destra è incapace di tessere alleanze con i moderati, tanto con l’establishment, quanto con gli elettorati. In Italia questo ponte è sempre stato garantito da Berlusconi, ma in virtù di una netta prevalenza del suo partito sugli alleati, si chiamassero Fini, o Bossi. Oggi, a pesi elettorali invertiti, ogni equilibrio è saltato. E se per puro caso la Le Pen dovesse compiere il miracolo di ribaltare tutti i pronostici, conquistando l’Eliseo, oltre a far tremare dalle fondamenta i palazzi di Bruxelles, si rimescolerebbero tutte le carte anche nel centrodestra italiano.
Ma le elezioni francesi forniscono anche altri spunti in chiave italiana. In primo luogo lo stato comatoso della sinistra tradizionale, che — dopo la rinuncia a correre di Hollande — deve constatare la disfatta del candidato ufficiale socialista Hamon, che ha ottenuto appena il 6 per cento. Renzi è già salito da tempo sul carro di Macron, ma è evidente lo stato confusionale di una sinistra che su scala europea sembra sempre più con il fiato corto. Tra l’altro in Francia sarà necessario trovare in fretta una sintesi per affrontare le legislative di giugno, dove gli apparati tradizionali torneranno a pesare assai.
In fondo è lo stesso problema che ha il Pd: uscire dall’isolamento in cui Renzi lo ha cacciato. Con un 10 per cento alla propria sinistra (Mdp, Possibile, Campo Progressista e frattaglie varie) che al momento sembra destinato a marciare su piani divergenti. E difficoltà a dialogare persino con l’area centrista, con il 40 per cento del premio di maggioranza che rimane una chimera irraggiungibile.
Nessun candidato sopra il 25 per cento, quattro candidati a cavallo del 20 per cento: la Francia fotografa quindi la stessa crisi profonda della politica “tradizionale” che coinvolge l’Italia, dove a legge elettorale invariata i tre poli principali (Pd, 5 Stelle e centrodestra) si equivalgono intorno al 30 per cento. I grillini, poi, sono la vera particolarità italiana, che non ha paragoni plausibili Oltralpe.
Tra l’indeterminatezza italiana e quella francese, però, una differenza c’è. A farla è la legge elettorale: quella transalpina garantisce che — almeno al secondo turno — il capo dello Stato sia espressione della maggioranza assoluta dei votanti. Potenza del ballottaggio. In Italia, invece, sulle regole per il voto siamo all’anno zero. Uno stallo che rende sempre più concreta la prospettiva di andare al rinnovo del parlamento con un sistema sostanzialmente proporzionale che non potrebbe consegnare nulla di diverso dall’ingovernabilità. Tre aggregazioni che sono accreditate grosso modo di 200 deputati ciascuna, con l’obbligo di fare accordi “contro natura” per provare a costruire una maggioranza, senza alcuna garanzia di arrivare ai fatidici 316 voti di maggioranza. La stabilità francese, per quanto imperfetta (la coabitazione è sempre dietro l’angolo), sembra davvero lontanissima da Roma.