Il gioco è già cominciato, un gioco da salotto politico: chi è o chi può diventare il Macron italiano? L’elenco dei candidati non è molto lungo, ma se il vincitore del primo turno diventerà presidente, siamo sicuri che s’infoltirà. Oggi come oggi si candidano Matteo Renzi, Carlo Calenda, Enrico Letta, Stefano Parisi e ci si è messo persino Renato Brunetta definendosi da sempre lib-lab proprio come Emmanuel Macron. Ciascuno di loro, in effetti, possiede alcune caratteristiche del giovane politico francese, il quale ha vinto con un misto di ottimismo della ragione e riformismo pragmatico, lanciando un messaggio di speranza, ma concreto, contro i seminatori di ansia e paura.
C’è più di un punto di contatto con Renzi, il quale si è sempre scagliato contro disfattismo e catastrofismo, anche se lo ha fatto con una querula polemica contro i gufi che lo ha portato a confondere gli avversari con gli amici che lo invitavano a guardare in faccia alla realtà. Non solo. A mano a mano che le cose si facevano più difficili e la strada s’inerpicava in salite ardite, l’allora capo del governo perdeva le staffe e cominciava a inseguire Beppe Grillo sul suo stesso terreno: la polemica con l’Unione europea spesso fondata, ma raramente accompagnata da una politica positiva; la rincorsa dei voti con quelle che sono apparse mance elettorali; il rifiuto di costruire un consenso più ampio a cominciare dal suo partito.
Proprio il partito che Renzi ha conquistato (imitando in questo più il modello Tony Blair) è diventato la sua palla al piede. Oggi molti lo invitano a rovesciarlo come un guanto, una volta ripreso in mano con le primarie e a trasformarlo in un PdR, il partito di Renzi. Un consiglio che non aiuta a ricomporre le lacerazioni.
Il problema di Calenda è che, invece, non ha un partito, un movimento, uno strumento per fare politica e raggiungere quella platea ampia che ancora non lo conosce. Aveva cominciato con Montezemolo, ma l’avventura politica dell’ex presidente della Ferrari non è mai decollata.
Parisi per molti versi assomiglia a Macron. A cavallo tra esperienza politica e manageriale (sia pur nell’industria e non in banca), anche lui viene da un milieu socialista-liberale e ha lanciato un proprio movimento politico. Tuttavia, ha ottenuto ampi consensi nella competizione per il comune di Milano con una coalizione chiaramente di centro-destra, che va da Forza Italia alla Lega. Difficile trasformarla in un movimento di massa, diffuso sul territorio, che superi la vecchia cesura tra destra e sinistra. Parisi può essere un cavallo di razza per il rinnovamento del centro-destra, ma oggi come oggi non oltrepassa quel confine. Tanto meno potrebbe farlo Brunetta (anche se la sua era poco più di una battuta).
Enrico Letta s’avvicina forse più di ogni altro al profilo di Macron. Il suo europeismo è netto, senza pentimenti, né recriminazioni. La sua preparazione politica certo non è inferiore e i riferimenti culturali sono in perfetta sintonia (non solo perché insegna a Parigi a Science Po). Ma il punto debole è quell’anno trascorso alla guida del governo, durante il quale non ha mostrato l’audacia e l’energia messe in campo da Macron.
Per un verso e per l’altro, dunque, il nostro gioco di società ci lascia senza giocatori, tutti hanno qualcosa, ma a tutti manca il quid macroniano, costruito in base alla personalità, alla biografia, al messaggio politico. Tuttavia, sarebbe sbagliato ritenere che quel che sta accadendo in Francia non sia destinato a lasciare una traccia profonda anche nella politica italiana.
Mettiamo sempre la mani avanti: non è fatta, in due settimane molte cose possono cambiare, Marine Le Pen è una combattente formidabile e il suo consenso molto ampio. Ha già cominciato ad attaccare Macron in quanto uomo dell’establishment, fantoccio dell’alta finanza, niente meno che dei Rothschild odiatissimi dalla destra populista e dalla sinistra radicale e da sempre oggetto di un antisemitismo che in Francia resta molto diffuso. Gli stessi elettori di Mélenchon si dividono, lacerati tra votare un banchiere e una ex fascista. La rabbia e lo smarrimento che hanno spostato dai socialisti al Front National il nord est dove si concentra la vecchia industria colpita dalla crisi, non sono scomparsi e giocheranno fino in fondo le loro carte.
Tuttavia il primo turno ha ridimensionato l’onda populista: si è infranta contro una diga e potrebbe rifluire come è già avvenuto in Olanda, in Austria, nelle elezioni locali tedesche e prima ancora in Spagna. Colpisce senza dubbio la prudenza del Movimento 5 Stelle che non prende posizione con la scusa che una forza politica candidata a governare non deve schierarsi. Strano perché il M5S aveva fatto il tifo per Donald Trump, aveva applaudito a Vladimir Putin, era stato con Nigel Farage per la Brexit, e tutto questo soltanto pochi mesi fa. Grillo sta facendo molte capriole, come ha dimostrato la sua intervista all’Avvenire ed essendo furbo ha capito che l’aria sta cambiando? Il comico in politica si rivela mobile come piuma al vento. Ma non è certo da escludere che il suo fiuto per la psicologia delle masse (delle sue in ogni caso) gli suggerisca di attendere e vedere come butta.
L’altro insegnamento, non strumentale, riguarda i contenuti e i metodi della politica. La chiarezza premia, meglio presentarsi davanti agli elettori con un’identità chiara e distinta, senza mascheramenti, senza furbizie dell’ultimo momento, senza inseguire l’avversario. L’Italia, proprio come la Francia è spaccata, lo è l’opinione pubblica non solo la classe politica, tra chi immagina che per uscire dalla palude del presente è meglio chiudersi nel proprio passato e chi cerca, magari confusamente, il proprio modo di incontrare il futuro. Non è meglio giocare in modo netto e senza trucchi?