Non tira una buona aria per l’interregno politico-istituzionale — da qui alle prossime elezioni — messo su alla men peggio dopo la sconfitta di Renzi al referendum, e la sua insostenibile pretesa di non prendere atto della sconfitta come avrebbe dovuto; lasciando al Pd e al governo la possibilità di assetti diversi per prepararsi al meglio, il primo, alle prossime urne e, il secondo, per chiudere in autonomia e coerenza, con qualche frutto positivo, una legislatura girata male. Il Pd, oltre a patire la scissione bersaniana, è stato costretto a primarie “abbreviate”, per rilanciare il leader, tra il disinteresse generale dell’opinione pubblica, che ha già “scontato” politicamente la convinzione che il Pd di Renzi, e Renzi medesimo, non sarà più la soluzione per il prossimo governo di “transizione” che probabilmente ci aspetta, ma il problema.
Una convinzione che gli sfidanti dell’ex premier gli ricordano ogni giorno, a cominciare da Orlando, che dice quel che nel partito pensano anche molti di quelli che per sopravvivenza politica personale lo appoggiano, e che cioè il giorno dopo la sua prevedibile vittoria nelle urne “ristrette” delle primarie del 30 aprile, più che una nuova scissione, ci sarà qualcosa un ulteriore scisma silenzioso di militanti ed elettori, che prefigura per il Pd qualcosa di peggio del 24 per cento, otto punti sotto il 5Stelle, che già alcuni sondaggi accreditano.
Ha voglia a dire Renzi che ad ogni modo, mancasse la vittoria con il 40 per cento, per il Pd c’è comunque la possibilità del governo con le larghe intese (che invero nei sondaggi non si vedono); ma anche ammesso che fossero possibili, una cosa è un’intesa più o meno larga intorno ad un partito del 30 per cento, una cosa un’intesa cui si partecipi con un partito in picchiata verso il 20 per cento. Questo lo stato dell’arte per il partito.
Quanto al governo, oltre ad essere, al netto di Gentiloni premier, sostanzialmente la fotocopia del precedente, perché nessuno dimenticasse che anche lì c’era una reggenza, è da mesi costretto a barcamenarsi tra le esigenze del Paese e i vincoli europei e le esigenze della “rivincita” renziana. Con una perdita secca di credibilità, che pure avrebbe potuto avere con una maggiore autonomia dalla precedente gestione, e con il vulnus di non avere una politica economica di cui si capisca il senso in prospettiva; tutti costretti ad attendere quando ci sarà il governo “vero”, con il ritorno del vecchio “inquilino” a Palazzo Chigi.
Una credenza anche questa, ad ogni modo, cui ormai non crede più nessuno neanche al governo, dove tra Padoan, Orlando, Calenda e un silenzioso Gentiloni in attesa di poter fare finalmente in proprio il premier, non si capisce bene quanti si stiano candidando per guidare il prossimo governo di “transizione”. Il tutto ovviamente in uno stato sempre più confusionale della governance allargata del renzismo già regnante, dalle vicende Rai all’Anac di Cantone, con episodi ai limiti della costituzionalità repubblicana, con norme che aggirano le attribuzioni del parlamento e risultano insieme orfane anche dell’esecutivo. Una nuova fattispecie di legalità repubblicana che ci regala uno strano interregno politico-istituzionale.
Insomma è grigia davvero. Forse per una scarsa consapevolezza storica: gli interregni funzionano quando preparano il nuovo potere, non quando difendono il vecchio. Anche la politica più volontaristica non dovrebbe mai mettersi contro la legge di gravità.