Attraverso il Messaggero di ieri filtra l’ennesimo avvertimento a Matteo Renzi. Non è un ultimatum, perché di tempo ce n’è, ma una messa in guardia sì. Arriva dal Quirinale e ha per oggetto la legge elettorale, la nuova araba fenice: che ci sarà, ognuno lo dice; come sarà, nessun lo sa. L’avvertimento al segretario (dimissionario) del Pd è il seguente: meglio cominciare a darsi da fare, perché con le leggi attuali al voto non ci si va. E se i partiti non troveranno un’intesa, la strada ipotizzata dal Colle è un bel decreto del governo a fine anno che sarà convertito nei primi mesi del 2018 e di conseguenza allungherà i tempi del voto forse addirittura a maggio. Siccome non sono seguite smentite alla ricostruzione del quotidiano della famiglia Caltagirone, c’è da prenderlo per buono.



Non occorrono particolari doti di fantasia per immaginare l’irritazione di Mattarella, che prima di salire al Quirinale era giudice costituzionale e dunque tiene in modo particolare a una legge che la Consulta ha dovuto rimaneggiare. Le indicazioni della Corte sono state chiare, così come il senso dei precedenti interventi sul Porcellum, che ancora sopravvive (sia pure ritoccato) al Senato. Per mesi la vita politica ha vissuto in una sorta di sospensione in attesa prima dell’esito del referendum e poi della sentenza sull’Italicum. Ora che tocca di nuovo ai partiti dire la loro, dopo che lo hanno fatto i cittadini e i giudici costituzionali, tutto è di nuovo paralizzato perché il Pd deve fare le primarie. Che peraltro, nel primo voto di ieri nei circoli, stanno premiando oltre ogni ipotesi il segretario.



La scossa di Mattarella fa ballare Renzi, al quale tocca muovere per primo. Ma il segretario del Pd non sa ancora che pesci pigliare. Perché il suo protagonismo, la sua pretesa di risolvere da solo i guai dell’Italia, si scontrano con il clima politico in cui si svolgeranno i prossimi anni. Un clima ostile ai salvatori della patria, in cui tutti vogliono tenersi le mani libere. La tendenza al ritorno al proporzionale, alla rappresentanza parlamentare del numero maggiore possibile di sfumature partitiche, costringe a cercare mediazioni, punti di incontro, compromessi (“inciuci”, per molti), più che a imporre ultimatum. Le ultime mosse di Gentiloni, non a caso, danno corpo a questo nuovo contesto: a proposito dei voucher, per esempio, il premier ha ribadito di averli cancellati soltanto per evitare il referendum e l’inevitabile codazzo di polemiche che avrebbero paralizzato il Paese per mesi, ma il governo elaborerà una nuova disciplina sul lavoro occasionale concordandola con le parti sociali. Non le metterà davanti all’alternativa del “prendere o lasciare”, come successo quando a Palazzo Chigi stava Matteo Renzi.



Ma il Quirinale sembra voler dare anche una via d’uscita ai partiti. Renzi vuole votare a settembre. Grillo anche domani e così pure Salvini. Alfano non ha scadenze particolari, purché gli tolgano le soglie di sbarramento. Bene, dice Mattarella: trovate un accordo. Prima si concorda la nuova legge elettorale, prima si potrebbe andare alle urne. Nella sua inesauribile prudenza, anche Gentiloni è costretto ad ammettere che la manovra di fine anno sarà drammatica: l’altro giorno a Confcommercio ha promesso riduzioni fiscali e tagli al costo del lavoro aggiungendo che “adesso è più facile farli, in autunno un po’ meno”. Nemmeno il premier Cireneo vorrebbe portare la croce di un rincaro dell’Iva imposto da Bruxelles. Ma lui ha detto che l’iniziativa sulla legge elettorale spetta ai partiti, non al governo. Cioè a Renzi, il quale forse attende un segnale dal più muto di tutti: Silvio Berlusconi.