A Matteo Renzi piace vincere facile. Definire straordinaria un’affluenza di un milione di votanti ai gazebo delle primarie democratiche è come porre a un metro e mezzo e non a 2,45 l’asticella del record mondiale di salto in alto. Un milione sarebbe un terzo delle primarie 2013 (due milioni e 800mila votanti dichiarati), meno di un quarto del voto che nel 2005 incorò Romano Prodi (quattro milioni e 300mila). 



Altri tempi, si dirà. Ma esultare a quota un milione si può solo se ci si sente molto deboli, o molto in malafede. In realtà sulla veridicità dei numeri di primarie autogestire si può avanzare più di un dubbio (“si possono aggiustare di comune accordo fra i candidati”, sussurrava questa settimana un alto papavero democratico in Transatlantico). Certo è che se ai gazebo, da nord a sud, venisse segnalato il deserto sarebbe ben difficile dichiarare cifre troppo elevate. Al Nazareno si giudica quella dei due milioni la soglia psicologica per dichiarare il completo successo dell’operazione primarie, anche perché se si rimanesse intorno al milione vorrebbe dire che ciascuno dei 400mila iscritti al Pd avrebbe portato a votare un solo amico, o poco più. Un disastro. 



Ma disastro non sarà, in molti sono pronti a scommettervi. E Renzi riceverà una nuova incoronazione, con numeri estremamente ampi, vista anche l’innegabile modestia dei suoi competitors. Il problema, per Renzi e per tutto il Pd, sarà come investire il capitale politico derivante da questa nuova legittimazione sotto i gazebo. 

Agli osservatori l’ex sindaco di Firenze è apparso mordere il freno dal referendum perso a oggi. Da lunedì recupererà ampia libertà di azione, ma dovrà fare i conti con un viluppo di problemi. Ultimo in ordine di tempo l’Alitalia, un tema su cui è apparso platealmente distante dalle posizioni caute e rigorose di Gentiloni e Padoan. Per Renzi bisogna fare molto di più che un prestito ponte per la ex compagnia di bandiera, ma percorrendo questa strada sconfesserebbe in modo clamoroso il governo di cui il suo partito detiene la stragrande maggioranza. 



Ancor più il rapporto con Palazzo Chigi verrà messo a dura prova dall’approssimarsi della più delicata delle scadenze, il varo in parlamento della manovrina di primavera, leggero antipasto di una correzione dei conti pubblici attesa per l’autunno ben più pesante e indigesta. Sul tema della politica economica il momento delle scelte è ormai giunto: non volersi caricare sulle spalle il peso di una legge di bilancio da lacrime e sangue (o quasi) significherebbe spedire il paese su una china inclinata verso le elezioni, andando a intrecciarsi con l’altra grande partita, quella della legge elettorale

Dopo un’apertura, in verità timida e tardiva, da parte del Movimento 5 Stelle, l’onere della prossima mossa tocca ai democratici. L’appiglio del premio di maggioranza che scatta al 35 per cento (proposto da Di Maio) è troppo flebile per essere colto. E probabilmente è pure incostituzionale, perché il numero di seggi per arrivare alla maggioranza assoluta rimarrebbe abnorme, come stigmatizzato dalla Corte Costituzionale nella sentenza pubblicata a inizio 2014 che bocciò il Porcellum. Eppure è una novità da tenere in considerazione, anche se l’ex premier sembra fidarsi poco. 

Ma nella partita delle nuove regole elettorali Renzi si giocherà molto anche delle alleanze future, con un Pd inquieto di fronte alla prospettiva di un governo da sostenere dopo il voto con Berlusconi, se — come pare più che probabile — si voterà con un sistema proporzionale nel quale nessuno avrà seggi sufficienti per costituire un esecutivo. E’ — quello delle alleanze — il terreno su cui Renzi si è maggiormente esposto al fuoco di fila dei suoi competitors, Orlando ed Emiliano. E’ un fatto, però, che sulla base di chi saranno i partners con cui si riscriverà la legge elettorale, sarà più chiaro chi saranno i compagni di strada del dopo. Gli stessi, cioè, con ogni probabilità, che siederanno al tavolo della riforma.

Ultimo nodo da sciogliere, conseguente dall’incrocio delle scelte sulla politica economica e sulla normativa elettorale, è la data del voto. Il fronte del 2018 è di nuovo in allarme, perché sul calendario di Renzi c’è una nuova data cerchiata in rosso, quella del 5 novembre, in contemporanea con il rinnovo dell’Assemblea regionale siciliana. “E se dovesse essere, Mattarella se ne dovrebbe fare una ragione”, è l’aspro giudizio attribuito a un importante esponente dell’area renziana.

Com’è facile notare le incognite sono troppe perché si possa definire facilmente il risultato dell’equazione. Il pallino da lunedì torna nelle mani di Renzi, che però non si può permettere di sbagliare ancora, dopo avere clamorosamente fallito l’obiettivo della riforma costituzionale, bocciata da una netta maggioranza dell’elettorato. Il riconsacrato segretario del Pd, insomma, dovrà farsi bene i conti in tasca.