Sino alle primarie del Pd tutto fermo. Ma proprio per questo il momento delle grandi manovre è adesso. Ancora tre settimane di pure chiacchiere, almeno in apparenza, perché il maggior partito italiano (in parlamento, almeno) non può prendere iniziative politiche significative. Ma ciò non vuol dire affatto che non succeda nulla, anzi. E questo stato di agitazione non riguarda solamente il Nazareno e dintorni.



L’epicentro è però lì, nel partito che attende la seconda incoronazione di Renzi, ma che fibrilla. Una fase che Andrea Orlando, suo sfidante numero uno, riassume bene quando dice che la sfida non è trovare l’anti-Renzi, ma uscire dall’isolamento politico in cui i democratici si sono cacciati. Una diagnosi impietosa, che non è affatto detto trovi una cura adeguata. 



In questo momento anche chi non ha seguito gli scissionisti di Mdp spara a zero sul quartier generale: tanto Orlando quanto Emiliano hanno messo nel mirino la riforma della “Buona Scuola”, uno dei totem del renzismo. E persino la vice di Renzi, Debora Serracchiani, ammette errori nel periodo in cui l’ex sindaco di Firenze ha guidato partito e governo. 

Renzi non può che mordere il freno, e la sua insofferenza si manifesta nel lamentarsi che nel Pd “il primo che ti pugnala alle spalle è il tuo compagno di partito”. Come se lui non avesse mai “pugnalato” nessuno. E in più resta da capire se questa riflessione sia o meno il preludio di una resa dei conti all’indomani delle primarie del 30 aprile e dell’assise congressuale. Una mossa da scacco matto alle ultime sacche di opposizione interna.



Tutto il resto del mondo politico attende che il Pd faccia la prima mossa sul terreno della partita determinante dell’ultimo scorcio di legislatura, la legge elettorale. Ed è lampante che i giochi delle alleanze sono rimandati a quando si conosceranno le regole del gioco della prossima contesa elettorale. 

Le premesse sono pessime: l’elezione del centrista Salvatore Torrisi alla guida della commissione Affari costituzionali del Senato costituisce un campanello d’allarme. E’ la conferma che con un quadro politico così precario non è lecito coltivare troppe illusioni. Nessuna riforma ad ampio raggio della legislazione elettorale è destinata a vedere la luce, quasi certamente ci si limiterà a piccole correzioni, trasferendo sul Senato meccanismi simili a quelli previsti per la Camera, in particolare unificando al ribasso, intorno al 3 per cento, la soglia per entrare in parlamento. Ci sono due nodi da sciogliere, però: i capilista bloccati e l’incentivo a fare coalizioni.

I capilista bloccati avvicinano Renzi e Berlusconi, mentre le posizioni dei due divergono sul premio di maggioranza: alla lista secondo il fiorentino, alla coalizione secondo l’ex cavaliere. Il puzzle dello schieramento dei partiti si deciderà sono quando una decisione su questi punti — il secondo soprattutto — verrà presa. 

Nel frattempo al centro si organizzano le primarie degli orfani: Alfano, Casini, Zanetti e Tosi giocano alla scelta del leader nell’attesa di sapere se uno dei due fra Berlusconi e Renzi avrà un ripensamento e troverà il modo di imbarcarli. Altrimenti rischieranno di finire stritolati e correranno il rischio di non superare la soglia per essere rappresentanti nella prossima legislatura. 

Allo stesso modo Salvini e Meloni saranno incentivati a correre insieme se al Senato dovesse rimanere l’attuale soglia dell’8 per cento su base regionale. Con il 3 per cento, invece, ciascuno correrà da solo. A meno che non si decida di indirizzare il premio di maggioranza (che nessuno raggiungerà) alla coalizione, e a quel punto ci sarebbe l’incentivo per sedersi di nuovo intorno a un tavolo con Berlusconi, con il quale oggi a tenere i contatti è assai più la leader di Fratelli d’Italia che non il capo della Lega. Anche lui è in cerca di una nuova legittimazione, e per questo a convocato un congresso per metà maggio.

Per il centrodestra, più che per gli altri poli della politica italiana, saranno le amministrative di giugno il banco di prova delle geometrie possibili. Ma anche per i 5 Stelle il passaggio sarà delicato. Con oltre mille comuni al voto e quasi dieci milioni di elettori, anche i grillini sono chiamati a confermare i sondaggi che lì danno stabilmente al di sopra del Pd nonostante tanti guai delle loro amministrazioni, a cominciare da Virginia Raggi a Roma. Se avessero coraggio politico potrebbero raccogliere l’offerta di Renzi e votare con il Pd il ritorno al Mattarellum, sistema che probabilmente porterebbe loro una notevole messe di seggi. Rimanere attestati sul proporzionale costituisce un ripiegamento difensivo, che consegna al dopo voto la difficile (se non impossibile) ricerca di una maggioranza parlamentare per un governo purchessia. Uno scenario spagnolo verso cui l’Italia sembra avviarsi ogni giorno di più.