Ieri sera al Nazareno il segretario riconfermato del Pd è arrivato da Firenze indossando il chiodo di pelle nera stile Fonzie. Era l’ultima occasione in cui Matteo Renzi poteva sfoggiare il look disimpegnato, simbolo della “narrazione” post referendum. Quattro mesi da dimissionario, in cui ha litigato con l’Europa, indispettito i ministri economici, irritato il presidente Mattarella, deluso chi era andato a votare No il 4 dicembre nella speranza che egli mantenesse la parola e togliesse il disturbo dalla scena politica. Ma è stato anche un quadrimestre in cui Renzi non ha mosso un dito per sciogliere effettivamente i nodi delle principali questioni sul tappeto: legge elettorale, Alitalia, aumento dell’Iva e in generale la politica economica del governo.
La sua è stata la rappresentazione di un leader quasi infastidito dai problemi del Paese, come s’è visto nel confronto televisivo con gli avversari nella corsa alla segreteria del Pd, affrontata con la sicumera di chi la considerava una serata buttata via. In effetti, non c’è mai stato un esito più annunciato di una votazione, talmente scontato da renderlo quasi pleonastico.
Poi, al momento di fare il suo discorso per commentare i risultati, Renzi si è presentato senza il giubbetto ma indossando giacca e cravatta. Il messaggio è chiaro: si cambia. Ma che cosa cambia? A sentire il comizietto, ben poco. Renzi non è cambiato. È il solito “uomo solo al comando” che abbiamo imparato a conoscere. Di legge elettorale non ha parlato, e così pure della legge di bilancio. Ha detto che il nemico sono i grillini, capirai. Ha aggiunto che “non si sa quando si andrà a votare”: e qui la differenza è profonda rispetto a Maurizio Martina, prossimo vicesegretario, il quale poco prima aveva detto che la prospettiva del governo Gentiloni è il 2018. Magari un ministro in carica non può innescare il conto alla rovescia per l’esecutivo. Tuttavia il sottosegretario Maria Elena Boschi a domanda diretta era stata molto più evasiva: stasera si festeggia il trionfo alle primarie, aveva detto, del resto si parlerà più avanti.
Dunque le elezioni si fanno più vicine, ma nemmeno questa è una novità assoluta. Renzi ha ora un mandato molto forte, indiscutibile, per cominciare a trattare in parlamento una legge elettorale da una posizione di maggiore forza. Questo è il vero risultato delle dimissioni: mostrare che non ci sono alternative a lui, che a Palazzo Chigi se non ci va lui ci devono mandare uno che è soprannominato “Er Moviola” tale è la reattività di Gentiloni, e che al partito il massimo cui può aspirare la minoranza è un 25 per cento, un voto su quattro, dato che ormai la scissione è compiuta.
Ora Renzi punterà a un accordicchio sulla legge elettorale, magari con il centrodestra di Berlusconi, propedeutico alla “grande coalizione” da realizzare dopo il voto. Una legge di basso profilo, in grado comunque di tacitare Mattarella. La scommessa di Renzi è di votare a novembre, ridimensionare i 5 Stelle e — come ha ripetuto ieri sera — “cambiare l’Europa”. A meno di clamorose sorprese, domenica prossima il voto francese rafforzerà questo suo pseudo-riformismo. Bisognerà vedere come andranno le amministrative di giugno, ma è difficile ipotizzare un tracollo renziano. Diverso sarà quando si voterà per la nuova legislatura, e la campagna elettorale non si farà sulle piccole medagliette che Renzi si appunta al petto (Jobs act, diritti civili, legge sull’autismo) ma su temi come il rapporto con l’Europa, l’ondata migratoria e il taglio delle tasse. Argomenti sui quali il Pd è in estrema difficoltà. Per ora Renzi si conferma il nuovo Gattopardo: cambiare tutto benché in realtà non cambi nulla.