Un congresso a salve; anzi… a Salvini. Quello di domenica 21 a Parma, incluso l’antipasto delle primarie del 14, si preannuncia come un evento di pura facciata per la Lega, e per tanti motivi. Uno, soprattutto: i conti interni in un partito unito e compatto solo nella facciata, non si faranno lì ma dopo le elezioni politiche prossime, quindi o a fine di quest’anno o nella primavera 2018. Perché nessuno, in questo momento, ha né la forza né l’interesse per mettersi di traverso a un segretario che di testa sua ha deciso di cambiare la carrozzeria del Carroccio, facendone tutt’altra cosa rispetto all’originale: dando vita di fatto a due linee tra loro inconciliabili, quella sovranista cavalcata da lui, e quella nordista delle origini.
Sono due posizioni che si fronteggeranno alle primarie di domenica per la scelta del segretario: dove a Salvini si contrappone Gianni Fava, sostenuto dal dichiarato appoggio di Umberto Bossi, che da tempo sconfessa le posizioni assunte dal segretario.
L’esito è iper-scontato. Fava ha superato a stento le mille firme richieste per potersi candidare; e in ogni caso anche chi non è d’accordo con Matteo per ora lo tiene per sé, nella convinzione che non sia certo il caso di cambiare la guida del partito in una fase fluida come questa. E tuttavia, lo stesso interessato non deve sentirsi poi così su un piedistallo, se va esplicitamente chiedendo una conferma bulgara (“se non ho almeno l’80 per cento dei consensi torno a fare il militante”). Non gli basta vincere, vuole pure la “ola”. Si illude tuttavia se crede in tal modo di mettere a tacere i malumori interni: che covano sotto la cenere, e che vedono pian piano coagularsi un’opposizione intorno a Bobo Maroni.
La questione è semplice. Salvini vanta di aver preso un partito ridotto al 4 per cento e di averlo portato al 12, proprio cavalcando una linea diversa, appunto quella sovranista, e schierandosi apertamente per figure come Marine Le Pen: incontestabile. L’obiezione che gli viene mossa è un’altra, ed è molto più pratica che ideologica: come intende usare quei consensi? Un 12 o 13 per cento in solitario, significa autoassegnarsi un ruolo di opposizione a vita, per di più ininfluente sul piano politico; con meno della metà, a suo tempo, la Lega di Bossi stava non solo in maggioranza, ma ricopriva pure importanti incarichi di governo; anche se poi non ha saputo sfruttare quella posizione.
L’ormai palese scelta di Berlusconi di collocarsi nell’alveo del Partito popolare europeo, spiazza l’idea di Salvini di un centrodestra anti-sistema. E ad accentuare ancor più questa situazione sono stati proprio i risultati elettorali francesi: per l’ennesima volta, l’onda lepenista ha fatto il pieno dei malpancisti, ma ha perso nelle urne e si è ritrovata di nuovo nell’angolo. I segnali giunti nei mesi scorsi da Austria e Olanda, e il prossimo voto tedesco, sono una conferma che questo è il trend a livello europeo.
C’è anche un concretissimo riscontro italiano, sempre legato alle urne: le elezioni regionali lombarde, che secondo alcune voci potrebbero anche essere anticipate all’autunno, in modo da coincidere con il referendum sull’autonomia. Il governatore Maroni non fa mistero di voler confermare l’attuale coalizione centrista, che è esattamente il modello respinto da Salvini a livello nazionale; e non si vede come sia possibile giungere a una mediazione tra queste due linee antitetiche.
Ma è anche per questo che i conti non si faranno al congresso di Parma, bensì nell’unico vero test probante, quello del voto politico. Se Salvini fallirà l’operazione di un centrodestra in chiave lepenista e sovranista, con se stesso alla guida; se il fronte che riuscirà comunque a saldare con Fratelli d’Italia si rivelerà minoritario; se la Lega ne uscirà magari con un consenso a doppia cifra ma da mettere in freezer; allora per il segretario arriverà inesorabilmente l’ora del fine-corsa. E tornerà appunto a fare il semplice militante: ma non per sua scelta.